Seduction of Photography

Finalmente.



Ho iniziato questo progetto circa sei anni fa.

Allora, la domanda che mi girava nella testa era molto semplice, tutto sommato banale: quando io faccio un ritratto, quando fotografo il volto di una persona, cosa succede tutto intorno? Come cambia l’espressione, il corpo del mio soggetto in relazione a come io mi pongo, a quanto sono vicino, a come mi atteggio fisicamente nei suoi confronti?
Mi ci voleva una specie di “backstage” ma mi è apparso subito chiaro che non poteva essere un altro fotografo a scattare, ma dovevo essere io stesso a farlo, e così ho cercato, e trovato, un telecomando, una roba da 60 euro, che connetteva le due macchine: quella che usavo io per fare i ritratti e quella che mettevo più lontano per inquadrare tutta la scena, perché pensavo anche che lo scatto delle due fotocamere dovesse essere perfettamente uguale, sincronizzato.

Il soggetto di tutto questo non poteva che essere una donna, o meglio “la donna”, che, per farla breve, rappresenta tutto quello che voglio fotografare nella vita.

Ho incominciato con due macchine a pellicola, ma poi era troppo difficile: alle volte il telecomando si inceppava e non potevo controllare nulla, così sono passato quasi subito a due fotocamere digitali. Guardando le prime foto ho anche capito che non potevo essere lì a scattare coi miei vestiti, una volta in modo e una volta in un altro, anche se, alla fine, il problema non era tanto il vestito, ma la “figura” che quel vestito rappresentava. Dovevo essere io, ma non proprio io.

Lo dico come mi viene: Io si, ma come fotografo, non come Toni Thorimbert.

Allora ho optato per un completo nero classico di Costume National: neutro, impeccabile, tutto sommato anonimo, ma anche bello da vedere.
Scattavo: amiche, modelle, amiche delle amiche. Mi piaceva molto ed ero sempre più entusiasta dei risultati. Vedere il fotografo all’opera e nello stesso tempo vedere la sua opera era quello che stavo cercando. Naturalmente, guardando le foto non si scopriva un bel niente, non c’erano risposte, ma questo davvero lo sapevo dall’inizio: il mistero in fotografia si infittisce man mano che cerchi di svelarlo.

Pian piano il lavoro prendeva forma, ma avrebbe cambiato forma ancora molte volte prima della fine.

Frequentavo all’epoca molto il Btomic di Jacopo Benassi, a La Spezia, Jacopo è stato un fan di questo lavoro fin dall’inizio, e mi veniva naturale immaginare che per ognuna di queste “sequenze” per ognuno di questi “set”, per ognuna di queste donne, avrei stampato una “fanzine”.
Cominciai quindi a progettare e ad impaginare piccoli volumi, con solo il nome nel frontespizio: Francesca, Donatella, Medea: Le sceglievo eh, le foto, non le mettevo mica tutte, ma a quel punto ero ancora molto rigoroso nell’accoppiarle: Un ritratto, una foto di “backstage”. Ma un gioco è bello quando dura poco, appena si svela il trucco, diventa meccanico, ripetitivo.
Poi cominciai a far vedere il lavoro a poche scelte e fidate persone. Vedevo però che finivano sempre per dire, “questa qui mi piace più di questa”, ognuno ha i suoi gusti, è normale, ma cominciai a intuire ( sono un po’ lento, lo ammetto) che forse il punto non era quello. Cioè, non potevano essere tanti piccoli libri, ma doveva diventare un solo libro.

Ma anche così i miei feedback non miglioravano.
Insomma, piaceva, ma a me non piaceva il modo in cui questo progetto piaceva.

Non ricordo esattamente quando, ma un bel giorno, credo durante un mio workshop, dove parlavo di ritratto come desiderio e seduzione finalmente, ho capito che questo lavoro non parlava di Maria, di Lucilla o di Elisa, o di me che le fotografavo, non parlava tanto della mia seduzione verso queste donne, né eventualmente della loro nei miei confronti, ma che ciò che realmente seduceva, ciò che aveva il potere di cambiare il corso degli eventi, era l'atto stesso del fotografare: il vero soggetto di tutta la faccenda era la fotografia stessa.

La fotografia è un atto di seduzione.


Da quel momento il progetto è diventato quello che è ora.

Aspetta, mica così come lo dico.

Avevo scattato circa venti donne e migliaia di foto, doppie.

Non sapevo come fare, ero sommerso. Dovevo scegliere. Intanto dovevo scegliere che libro sarebbe stato questo: un’enciclopedia? una galoppata a briglia sciolta nella prateria o un purosangue tenuto a redine corta, che scalpita, suda in un galoppo corto e trattenuto?
Dovevo metterle tutte le foto? Centinaia di pagine di fotine una accanto all’altra? L'idea era, appunto, seducente, o forse dovevo scegliere? Scegliere è duro, ma alla fine è sempre stata la mia storia. Ma nel mio studio, a Milano, col telefono che suona e tutto il resto. Impossibile.

Era Natale. Ho prenotato un hotel a Milano Marittima. Mai stato. Anonimo, senza tentazioni, solo una passeggiata al mare, la mattina.
Ero da solo. Unico cliente. Mi hanno dato la suite, all’ultimo piano, al posto di un letto hanno messo un tavolo e lì ho portato tutti i miei computers, hard disk, le mie stampanti, risme di carta.
Cinque giorni chiuso dentro a scegliere, confrontare, stampare, ritagliare, notte e giorno.















La sera di Natale ho mangiato da solo nella enorme sala, con le lucine di natale avvolte sui pilastri. Sono tornato a casa con circa 200 foto. Mica male, ma erano tante tante tante ancora, troppe.
Mi sono arreso, e ho chiamato Lorenzo Tricoli ed Emiliano Biondelli.
Loro hanno tagliato, impaginato, soprattutto hanno buttato. Hanno buttato cose stupende che avrebbero rovinato il libro. Avevano ragione.
Abbiamo discusso, pensato, provato, abbiamo fatto impaginati su impaginati.
Alla fine avevamo il libro in mano. 40 foto più o meno. Bello. Molto prezioso, con una copertina che da sola sarebbe costata un occhio della testa.
Stava per uscire. Stava per andare in stampa.

Ho fatto un’ultima chiamata, a Valerio Spada. Lui, visto solo una volta di sfuggita.
Ma lui ha fatto Gomorrah Girl, un libro-capolavoro. Lui, su Skipe vede tre, solo tre pagine del mio libro e dice: “Toni, mi fa schifo. il progetto è bello, ok, ma lo stai rovinando”. Me ne ha dette di tutti i colori, giuro. Mi vergogno a riferirle. E non ci conoscevamo neanche. Questo è quello che io chiamo un uomo generoso.

Ho chiuso lo studio quel giorno. Ho caricato tuta e casco in macchina e sono andato in pista a girare con la mia Honda.
Correvo e piangevo. Perché sapevo che aveva torto, ma che aveva ragione.

Ho fatto passare qualche giorno, poi ho detto ad Ilaria, la mia assistente: dai, facciamo 'sto libro. E l’ho finito.

(Le foto nel testo sono di Chico De Luigi, Hotel Adria, Milano Marittima, Natale 2014)

Qui sotto, il testo "ufficiale" del libro e qualche immagine ( Non troppe però, se no, che seduzione sarebbe...)



Strutturato come un libro, ma in realtà multiplo d'artista in 300 esemplari numerati e firmati, di cui 25 “collector edition” presentati in un box di plexiglass con stampa fotografica in edizione, Seduction of photography potrebbe sembrare una raccolta di ritratti femminili, ma già dalle prime pagine, la presenza del fotografo nell’immagine scombina le carte in tavola, spiazzando le aspettative dell’osservatore.

Realizzato con due macchine fotografiche, una, impugnata dal fotografo, e una, posta su un treppiede, che da più lontano inquadra tutta la scena, entrambe collegate da un telecomando che le fa scattare contemporaneamente, Seduction of photography indaga le dinamiche di potere e seduzione insite nell’agire del fotografare e del farsi fotografare.





Attraverso questo inedito meccanismo visivo il fotografo e la donna si mettono entrambi in gioco, svelando le dinamiche della loro complicità, ma anche la loro distanza, i loro percorsi, i luoghi dei loro incontri, in un crescendo di reciproco coinvolgimento e in un continuo scambio di ruoli.

“Io ti guardo o sei tu che mi guardi? Sono io, fotografo, il seduttore, o sei tu, soggetto, che mi seduci con il tuo sguardo?”





E’ il fotografo che attraverso la fotografia possiede il suo soggetto o è il soggetto, in questo caso la donna, che usa il territorio della fotografia per affermare la propria identità?
Il luogo della fotografia, sia esso una stanza o il mondo, cos’e’ se non un labirinto di specchi, un teatro delle emozioni e delle scelte ad esse connesse, dove entrambi gli attori si studiano, si affrontano, e come ad un tavolo di poker, giocano le loro carte, bluffando, barando, alzando la posta, decidendo se stare o uscire dal gioco?





Anche in questo caso, dove la seconda fotocamera sembra finalmente svelare dinamiche solitamente celate, la fotografia, mezzo espressivo che fa dell’ambiguità la sua forza e la sua cifra, si sottrae ad ogni risposta definitiva rilanciando all’osservatore, a chi guarda, al lettore, una ulteriore sfida: sarai in grado di mettere in scena i tuoi desideri? E sarà la fotografia il luogo dove questi prenderanno forma?

La fotografia, pur veritiera, non è mai verità certa, univoca. Seduction of photography ci consegna una nuova inaspettata affermazione: la fotografia è, prima di ogni altra cosa, un atto di seduzione.






Toni Thorimbert
Seduction of photography

300 esemplari numerati e firmati dall'autore
19,7 X 26,2cm
76 pagine, 27 fotografie ( 18 in bianco e nero, 9 a colori )

Stampato a Milano da Nava con una HP Indigo 7800 4+4 colori su carta Magno Natural 120gr.
Copertina morbida, rilegata con macchina da cucire Singer

Euro 40,00

Toni Thorimbert
Seduction of Photography

Collector edition

Edizione di 25/300 ( numerate da 275 a 299 )
La scatola di plexiglass realizzata su misura include una stampa fotografica su carta baritata numerata e firmata dall'autore.

La stampa misura 19,5 X 26 cm

La scatola misura: 21 X 27,6 X 3,7cm

Euro 300,00

Seduction of Photography deve molto a molte persone:
Grazie, con tutto il cuore, a tutte le donne che ho fotografato: come si suol dire, ma non è una vuota formula, senza di loro, tutto questo non esisterebbe.

Settimio Benedusi, che, oltre essere ciò che è, per me, e in assoluto, mi ha prestato la seconda macchina
Jacopo Benassi che era disposto a pubblicare le mie fanzines come Btomic e a cui del libro devo una meravigliosa definizione: "Sembra Araki, svizzero" ( senza sapere che il mio passaporto lo è)

Pino Musi, che mi ha accolto in famiglia, mi ha cucinato ottimi spaghetti alla salernitana, e mi ha dato, come solo lui sa fare, le dritte per fare di tutto questo quello che è diventato.
Filippo Maggia, che orgogliosamente chiamo "il mio curatore" che tra i suoi mille impegni e viaggi ha sempre trovato il tempo di vedermi e dirmi, poche cose, ma di quelle che vanno dritte al punto.

Lorenzo Tricoli, che su questo libro ha lavorato molto, che mi ha supportato nei momenti di depressione e incazzature varie, smussando sapientemente i miei angoli
Mario Peliti, che disdegna il libro chiamandolo "la brochure" ma a cui "la brochure" in realtà è piaciuta da sempre...
La Ci, che a furia di sgridarmi è riuscita, in parte, a farmi essere un po' meno..."DI DA SCA LI CO"!

Valerio Spada, che mi ha ribaltato.

Alessandro Cinelli, di Nava, per la sua pazienza e dedizione alla causa, Diana Thorimbert ( mia figlia, quella grande) che mi ha confezionato un sito web esattamente meglio di come ce l'avevo in mente, e poi tanti tanti altri: Emiliano, The cool couple, Giovanna, Laura, Kitty, Ilaria, Serena, Giorgio, tutti i miei assistenti e stagisti, L'Hotel Forum ad Arles, L'Hotel Adria di Milano Marittima, Elena, e poi ancora Elena, Gianfranco, Donatella, Stefania, Laura, Andrea, Michele, Renata, Susanne e Nicolas, Paolo e Martina, Chico, Fabio, Vittoria, Elisa, Giovanni, Jes, Barbara, Ray, Moreno, Walter, Tarin, Maurizio, Tecla, Monica, Sonia, Gia, e se per disgrazia dimentico qualcuno, giuro, è solo perchè sono le due di notte e sono cotto....

Seduction of Photography è in vendita qui:

Il volume sarà presentato a Milano, alla galleria Carla Sozzani in Corso Como 10, Giovedì 24 Novembre 2016 dalle 18,30
Interverranno Giovanna Calvenzi, storica della fotografia, curatrice e photo editor, Fabio Novembre, architetto e designer, Donatella Caprioglio, scrittrice, psicoterapeuta, non che una delle protagoniste dell'opera.
Ingresso libero



English translation:

Organized as a book, but rather an artist’s multiple that counts 300 numbered and signed copies - 25 of them part of a “collector edition”, packaged in a customized plexiglass box with a silver gelatin print - Seduction of Photography could easily look like a collection of female portraits.

But starting from the beginning, there is something unusual to the viewer’s eye: the photographer’s presence into the picture.
Seduction of Photography is the “mise en scene” of power and seduction inherent in the act of photographing - and being photographed; to achieve that, two cameras has been used: one held by the photographer, the second one on a tripod placed far enough to register the whole scene, both capable to shoot at the same time, thanks to a remote control.

Thanks to this visual mechanism we can spy the game played by the photographer and the woman: we can feel the complicity, but also a distance, we can follow their wander, observe them in the places of their encounter, in a growing mutual involvement and in a continual role reversal.

“I’m looking at you, or are you looking at me? It is me, the photographer, the one who seduces, or it is you, the subject, seducing me with your gaze?”

It is the photographer, through photography, who posses his subject or is the subject itself, the woman, who takes advantage of photography to affirm its own identity?

What is the territory of photography - could be a room or the entire world - if not a mirror maze?; a theater of emotions where both the actors confront themself as they were sit at a poker table, playing their cards, maybe bluffing, maybe cheating, quitting or rising the bet?

In this particular case, the second camera has the task to show us something that is usually concealed. But even so photography, as an ambiguous tool, doesn’t answer straight and challenge the viewer asking him: will you be brave enough to stage your desires? And will be photography the chosen medium to represent them?

Photography may be truthful, but it is never the absolute truth. Seduction of photography states something new and unexpected: first of all, photography is an act of seduction.


Toni Thorimbert
"Seduction of Photography"

Edition of 300 numbered and signed by the author.
19,7 X 26,2cm
76 pages, 27 photographs ( 18 black and white, 9 color )
Printed in Milano by Nava with an Indigo 7800 4+4 colors on paper Magno Natural 120gr.
Soft cover, bounded with a Singer sewing machine

Euro 40,00

"Seduction of Photography"
Collector Edition

Edition of 25/300 ( numbered from 275 to 299 )
A custom made plexi box including a barita photographic print 20 x 26,5 cm, numbered from 1 to 25 and signed by the author
The box measure 27,6 X 21 X 3,7 cm

Euro 300,00

Seduction of Photography is on sale here





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Un'intervista di Giovanna Calvenzi per FOTOIT magazine




Una bella intervista che Giovanna mi ha fatto per il numero di FOTOIT di Settembre.
la riproduco qui sotto integralmente:

GC. Bè, non è che lo studente Christophe Antoine Thorimbert, detto Toni, nel 1973 fosse proprio una meraviglia.
Aveva bei capelli lunghi, certo, occhi espressivi, ma anche foruncoli, scarponcini Kickers dei bravi bambini svizzeri e teorizzava che i denti bisogna lavarseli almeno una volta la settimana.
In classe era un capo involontario. Godeva di indubbio carisma e lavorare gli piaceva molto purché si iniziasse dopo le 10.
Quella era la sua ora, prima non c’era neanche.
Allora ero la sua prof di linguaggio fotografico e storia della fotografia.
Avevo fatto una proiezione mettendo a confronto il lavoro su Mosca di Henri Cartier-Bresson e di William Klein e Thorimbert, unico della sua classe, aveva fatto suo da subito il linguaggio aggressivo di Klein.
Assorbiva come una spugna. Credo sia stato lo studente migliore dei miei undici anni di insegnamento.
Come lavoro di fine corso aveva realizzato una storia sui bambini di Pioltello, alla periferia di Milano, nel quale il diciassettenne autore e i suoi soggetti recitavano insieme per raccontare una storia di emarginazione ma anche di allegra arroganza.
Erano già evidenti in questo primo lavoro una grande padronanza linguistica e un’incredibile chiarezza di visione.
E i “Bambini di Pioltello” rimangono un saggio fotografico che viene sovente proposto in mostra (l’ultima volta nel 2015 a Palazzo della Ragione, a Milano, nella mostra “Italia Inside Out”). L’intervista potrebbe iniziare da qui, da questi ricordi e dai “Bambini di Pioltello”.


TT. “Bambini di Pioltello” è stato il mio primo lavoro pensato come tale, oggi si direbbe progetto, e probabilmente sono anche tra le mie migliori fotografie di sempre.
A distanza di - ormai molto - tempo ho il rammarico di non aver saputo leggere in quel momento l’importanza di quel lavoro… avrebbe potuto portare la mia carriera in una direzione tutta diversa da quella attuale.
Non sono certo pentito del mio percorso professionale e umano e credo che quegli anni, con quella testa e in quel tempo, non potevano che portare a quella che è stata ed è oggi la mia realtà.
Ma il dubbio mi rimane.
Forse avrei potuto fare il reporter, esagero, magari il fotografo di guerra.
Oggi qualche volta ci penso, anzi ogni tanto mi viene la voglia di cominciare a farlo ora.

GC. Credo che quando hai finito la scuola e hai avuto la fortuna di iniziare immediatamente a lavorare tu non ti sia posto un problema di “genere”.
Ti è stata offerta l’opportunità di lavorare con Fabio Simion, fotografo prevalentemente di studio, e lì hai imparato a usare le luci, a comporre su un fondo, senza chiederti dove saresti potuto andare. Però, per quello che ricordo, non ti sei mai accontentato. Facevi reportage per movimenti politici, costruivi storie per giornali giovani della Mondadori, fotografavi “per te stesso” senza neppure un progetto reale di mostra o di libro ma quasi per verificare quello che volevi e sapevi fare.
Quando hai avuto la consapevolezza che stavi andando in una direzione precisa, quella che sarebbe poi diventata la tua per molto tempo?


TT. No, in effetti non si trattava di scegliere un genere, si trattava molto più prosaicamente di riuscire a vivere di fotografia.
Comunque ero molto giovane e fare l’assistente e imparare la faccenda dello studio, e le luci e tutto il resto mi piaceva molto, era un mondo, un gioco, incredibile, tutto da scoprire.
Comunque, sì, ho fatto tanto, la fotografia mi piaceva in tutte le sue forme, è stata per molto tempo, e lo è ancora oggi, la mia chiave per aprire porte, attraversare e conoscere mondi e persone.
Credo di essere diventato veramente consapevole delle mie scelte, del mio valore e del mio percorso-linguaggio molto tardi però, a metà degli anni ‘90, quando avevo già macinato un bel curriculum e migliaia di foto.
Ma è stato in quel periodo, dopo una salutare crisi esistenzial-fotografica, che ho cominciato a far collimare quello che volevo con quello che facevo.

GC. La domanda a questo punto diventa molto semplice: cosa volevi e cosa facevi?

TT. In quel periodo facevo ormai molta moda e avevo anche abbastanza successo, Cioè facevo foto che piacevano, roba fatta bene, ma mi mancava qualcosa.
L’esperienza del ritratto per Amica, con Paolo Pietroni direttore, si era in qualche modo conclusa.
Anni di ritratti in banco ottico 10x12, 4/6/10 scatti massimo.
Ritratti ambientati a colori, complicati, scultorei.
Una grande esperienza che però non era più in linea con gli anni ‘90 che iniziavano.
Lo stesso Pietroni era passato in Condé Nast a dirigere un Vanity Fair mensile dove le fotografie erano più pittoriche, più in movimento.
Forse si era persa la purezza e anche l’innocenza degli anni ‘80. Quell’essere così o niente.
Ora bisognava essere prima di tutto “cool”.
Le mie foto erano buone, Non credo di aver quasi mai fatto foto brutte o sbagliate, ho sempre surfato sulla cresta dell’onda degli stili fotografici, ma proprio questo era diventato il mio limite. Cavalcavo l’onda, ma era la mia onda? Durante un servizio di moda in Kenya entrai in una crisi profonda: avevo con me una foto di mia figlia che avevo fatto con la Rolleiflex, una foto semplice, quadrata. Pensai: “ma perché le mie foto di moda non sono così?” e da quel giorno cambiai completamente modo di lavorare.
Tornai in periferia, a Quarto Oggiaro, dove tutto era cominciato, e misi insieme dieci foto da portare in America.
O la va o la spacca, ero deciso a chiudere se non avesse funzionato.
E come potrebbe succedere in un film, l’ultimo giorno mentre mestamente stavo facendo la valigia perché nessun giornale di New York mi aveva cagato, squillò il telefono. Era Greg Pond, photo editor di Details, il giornale più figo del mondo in quel momento.
Cambiai il volo e il giorno dopo ero da lui.
Quello che volevo stava cominciando a collimare con quello che facevo.

GC. Dal tuo racconto emerge una tensione costante nei confronti della professione. E credo sia vero che la tua straordinaria capacità di “surfare sulla cresta degli stili fotografici” sia stata una gioia per chi ti dava lavoro ma poteva diventare per te una sorta di gabbia. Al di là della reazione radicale che hai avuto in Kenya ci sono stati altri elementi che ti hanno aiutato a trovare una direzione più tua? Ricerche personali? Altri autori con i quali ti confrontavi?

TT. “Ispirazioni” è il titolo di una fortunata conferenza che faccio qua e là, quando me lo chiedono. Una conferenza nella quale svelo le immagini e gli autori che mi hanno influenzato e stimolato, specialmente all’inizio della mia formazione come fotografo.
L’accesso all’informazione e alla cultura “alta” non era un fatto scontato per un ragazzo di periferia senza un background familiare privilegiato, e quindi sì, avevo fame di sapere e ho rubato tutto quello che potevo a chi mi ispirava, ma poi alla fine, quando trovi la tua strada, è molto più vicina a te come persona, a te come cuore, che alla somma di tutto quello che hai visto e studiato nel tuo percorso di crescita come autore.
A un certo punto ti scatta un qualcosa dentro e mandi tutti a quel paese e dici che vi piaccia o no questo sono io, così vedo io.

GC. All’inizio di questa conversazione dici che i “Bambini di Pioltello” sono tra le migliori immagini che tu abbia realizzato.
Se da un punto di vista “formativo” il tuo lavoro è certamente di grande forza, non sottovaluterei tuttavia molti dei tuoi ritratti – che tu oggi forse ritieni troppo “classici” – ma anche e soprattutto molte delle tue immagini di moda. In questa direzione tu sei passato indenne tra l’immagine della donna solare e saltante della fine degli anni ’70 e la donna tossica e sciagurata i cui strascichi si vedono ancora qua e là.
Riesci in qualche modo a definire che tipo di “moda” ti interessa?


TT. La moda non è il paesaggio. Il paesaggio sta lì, che tu lo voglia fotografare o no. La moda è un prodotto che per sua necessità commerciale si evolve e cambia continuamente.
La moda non è un vestito, ma d’altra parte il vestito ne è parte integrante, fondamentale.
Mi sono innamorato delle potenzialità espressive dell'abito incontrando casualmente l’alta moda di Capucci che però avevo voluto, all’epoca scandalosamente, fotografare indossata da un personaggio androgino e futuristico, una modella che sembrava uscita da Blade Runner in un contesto diroccato e decadente.
La qualità di un fotografo che fotografa la moda è la flessibilità, la curiosità, il desiderio di mettersi in gioco continuamente e soprattutto la capacità di lavorare come parte di un team, di accettare di mettersi in gioco con gli altri.
È il vestito che ti dice come fare la foto, mai il contrario.
Questo se vuoi essere un vero fotografo di moda, non un pirla qualsiasi che fotografa una modella con addosso della roba.
Io amo molto la moda, amo molto quello che un abito può trasmettere, la sua potenzialità espressiva, ma è un lavoro molto difficile, molto più di quello che può sembrare.
Quando vedi una foto di moda semplice, naturale, immediata e spontanea allora sai che lì il fotografo ci ha dovuto davvero sudare.

GC. Vogliamo parlare dei tuoi libri? Cos’è per te un libro? Che significato ha? Cosa chiedi a te stesso e al libro mentre lo stai progettando/costruendo?


TT. Sono molto lento nel progettare e produrre libri… Infatti, a oggi, lasciando a parte cataloghi o libri con altri fotografi, ne ho fatti “solo” tre: Transfert uscito nel 2000, Carta Stampata del 2006, e l’ultimo, Seduction of Photography che ho presentato in anteprima ai Rencontres de la Photographie d' Arles a luglio e poi, diciamo ufficialmente, a fine Novembre in Corso Como 10 a Milano e poi in varie gallerie e istituzioni in Italia.
Transfert e Carta Stampata sono raccolte composte da immagini che vengono dall’archivio, mentre Seduction of Photography è il risultato di un lavoro pensato per prendere la forma di un volume.
Carta Stampata è una antologia del mio lavoro per l’editoria, un libro che a un certo punto si è reso necessario soprattutto per me, per mettere ordine e dare un valore, una coerenza, alle migliaia di fotografie di reportage, ritratto e moda che ho scattato nei primi trent’anni della mia carriera di professionista.
Transfert, ormai introvabile, è il mio libro autobiografico, preparato parallelamente al mio percorso psicanalitico e racconta attraverso foto “ritrovate” in archivio il mio mondo interiore, un po' tormentato, oscuro.
Seduction of Photography è una riflessione sulla fotografia, sul suo potere seduttivo, ma anche sulla sua assoluta ambiguità.
Comunque costruire un libro è un’enorme sofferenza felice, è come una relazione amorosa, ti fa felice, ma ti fa anche soffrire... Per editare S.O.P. ho passato un Natale da solo chiuso in un albergo deserto di Milano Marittima… da 10.000 foto dovevo arrivare a circa 50 … Bello, e terribile al tempo stesso…

GC. Vorrei concludere la nostra conversazione riflettendo su una tua dichiarazione che risale a molti anni fa. Nel 1982, in occasione di una tua prima mostra alla Galleria Il Diaframma di Milano, avevi scritto: “Legato, sia per la mia ambizione che per oggettive ragioni economiche, alla “fotografia cui segue fattura”, sono portato a riversare la mia tensione creativa all’interno del mercato editoriale”. E’ ancora così?

TT. Qualcosa di vero c’è ancora, però sempre meno… Questa affermazione, lungimirante, visto il periodo in cui è stata fatta, è tanta parte della mia storia e del mio atteggiamento.
Mi piaceva lavorare e lavorando trovavo gli spazi, i mezzi e gli stimoli per produrre le immagini che avevo dentro.
Ora naturalmente le cose sono un po’ diverse, il mercato è molto cambiato, la fotografia è molto cambiata, le necessità mie sono cambiate.
Oggi esprimersi al di fuori di una committenza ti dà margini creativi molto maggiori, anche perché l’editoria, la moda, la pubblicità stanno attraversando un periodo di transizione e assestamento importanti.

FOTOIT
è il giornale della FIAF federazione Italiana Associazioni Fotografiche

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