Greetings from Hong Kong #03
Hong Kong non è la Cina.
Aggiungi che il traffico è fatto solo di Porsche, Mercedes e Lamborghini ma che le torri-condominio di qui fanno sembrare quelle di Sarajevo delle ridenti villette bifamiliari.
In albergo, arrivi, ti fai dare la cartina, sai.. per avere un’idea. Ci ho dato su dopo averla girata e rigirata come un calzino perché: c’è Hong Kong, che è un’isola, almeno dovrebbe, poi a nord, ai confini con "mainland", che è la Cina quella vera, ci sono i “nuovi territori”, nome meraviglioso, da fantascienza, da Blade Runner, mentre noi, qui in hotel abitiamo di fronte, cioè a Monkok o come cavolo si chiama, e che per andare di là passi sotto al tunnel come per andare da Manhattan a Brooklyn, mentre per traversare, a piedi le smisurate arterie della city, ci sono sopraelevate ugualissime a quelle di Bangkok.
Poi ci metti il fuso orario. Che a me verso oriente mi devasta.
Per due giorni non ci ho capito più niente, e oggi, che è il terzo, sono solo un po' più bravo a far finta di niente. Nel van, bloccato in un traffico infernale, guardo fuori e penso ”mah… il giappone me lo immaginavo diverso”. Così come per diverse ore sono stato convinto di essere in India: “caspita però, come l’hanno ripulita”.
L’hotel si trova dentro ad un centro commerciale sputato Los Angeles. Facciamo colazione in uno Starbucks che, con la pioggina di fuori, mi ricorda di brutto quando stavo a Portland. Prada is everywere, di Chanel ce n’è così tanti che sono arrivato a fantasticare di managers che a Parigi fanno riunioni per discutere di come non farsi fregare i soldi da tutti questi commessi di tutti sti negozi che hanno qui ad Hong Kong e di cui secondo me hanno ormai perso il conto. Delirio. Sono lo zimbello del mio hotel, sicuro. Quando chiamo giù, ridono e si mettono le mani nei capelli. Sono così sfasato che li chiamo in continuazione per chiedere cose di cui poi devo vergognarmi. Ho fatto fare il laundry service. Lo riportano: sul letto trovo ben piegati calzini e mutande. Allora chiamo incazzato: “mi avete perso la t-shirt di Benassi!” e loro: “Ha provato a guardare se è appesa nell’armadio?” “uh...eh.. yes, I am very sorry”. La stanza era disseminata di cartelli - davvero - grandi: “Check in the closet, please”. Ma io niente, li ho visti il giorno dopo. Poi la cassaforte: chiamo: ”non si chiude” Dling, viene su il tipo, io sguardo arcigno, tipo, "mi fate perdere un sacco di tempo", ma lui col ditino: tac tac tac tac tac tac: “six digit password, sir”, e io “Oooh, I am sorry, you know...I normally use a 4 digit password...eheheh”. Figura tremenda. Vi risparmio le altre. Addirittura, da dentro la hall ieri vedo il mio assistente per strada, era uscito a fumare. E, in un flash - giuro - ho pensato: “uuuh! Ma dai...è qui a Shanghai pure lui!”
Top: The view from the gym. 41th floor, Langham hotel, Hong Kong.
Photographed by Toni Thorimbert.
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Ahah, che racconto spettacolare!
RispondiEliminaGrazie :)
guido
Bellissimo!! Lost in orient-ation!!
RispondiEliminaC'è molto contrasto tra questo racconto e la compostezza che ho riscontrato in alcuni video che ha postato sul blog e che ho scovato su Youtube.
RispondiEliminaMi sono divertito molto perché ho immaginato gli sguardi degli addetti dell'albergo che, magari, nel'ascoltare le sue richieste/lamentele pensavano: «Italians...!»
Anche a Shangai ci sono le maschere antigas negli armadi degli hotel?
RispondiEliminaUna descrizione "lucidamente" Pulp
RispondiElimina;-), no niente maschere antigas, per fortuna. senz'altro nn avrei saputo come usarla!
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