The cameras > Volume 02 > the 8x10 inch.




L’ho usata molto, ma non la definirei una “mia macchina”
Chissà, meno male.
Perché chi l’ha sempre usata tanto con la Polaroid, come Giovanni o - l’altro Toni - solo per citarne un paio, quando la Polaroid ha chiuso hanno sofferto.
E si capisce. Tu vai avanti una vita ad usare una macchina e una pellicola e su questo connubio imposti moooolto del tuo stile, del tuo atteggiamento, del tuo modo di organizzare la produzione delle tue immagini e poi da un giorno all'altro: STOP. Finito.
Devi ricominciare daccapo. Che voglia.

Tu che la usavi come nessun altro.

Giovanni racconta che il suo consumo annuo di Polaroid 20X25 eguagliava quello della Svizzera.

Anche io usavo il "bancone" con la Polaroid, ma spesso con la pellicola.
L’idea era di arrivare ad Avedon, ovvio.
Ma, ammetto, io mi ero fermato ben lontano dal grande Dick.
Nel bianco e nero non ho mai azzeccato lo sviluppo credo. Invece che venire tridimensionale, rotonda, croccante, veniva molle, la foto.
Ma qui stiamo parlando di pellicole, mentre io voglio parlare degli "oggetti - macchina", e di come ognuna di queste porta il fotografo ad operare con un suo peculiare atteggiamento dal quale dipenderà molto del risultato finale.

Size matters.

Questa è grande grande. Più grande.
Più pesante. Più difficile. Più scura dentro.
Ci vuole più luce, più fuoco.
Bisogna davvero sapere subito dove piazzarla. Non è che puoi andare in giro a cercare l'inquadratura con sto coso in mano.

Gli americani sono bravissimi ad usarla come fosse una roba normale, ci fanno davvero tutto con il “bancone”, mica solo paesaggi, anzi.
Nicholas Nixon, Sally Mann, usano il banco come fosse una Pentax 6x7, loro cercano proprio questo: usarla con l'immediatezza di una macchina a mano, ma davvero non lo è.

Per il solo gusto di esagerare il 20x25 l’ho portato diverse volte anche in vacanza.
Mi ricordo un anno andai a Los Angeles con tutte le mie macchine: le Nikon, le Rollei, un 4X5 e la mia Tachihara 20X25.
Solo lei erano 4 - grosse - valigie: in una la macchina con obbiettivo, lentini, flessibili, il grande panno nero e altre robe varie, un'altra valigia con i 5 chassis, un’altra, pesantissima, per lo sviluppatore Polaroid più il borsone del cavalletto - il Manfrotto quello pesante. La pellicola la compravo là.

Ma mica ci facevo chissà quale progetto, ci facevo le foto che ora si fanno - molto meglio - con l’Iphone: Il tavolo da pranzo con i resti della cena, una veduta dalla finestra della camera d’albergo.
Al tramonto caricavo sul Cherokee le mie valige su misura ed andavo a Santa Monica a fare due foto di sopraelevate, semafori, la spiaggia.
Foto ricordo, davvero niente di che.

Ci sono state un paio di occasioni in cui il 20x25 è stato la chiave giusta per realizzare un'esperienza all'altezza della fatica che ci vuole per compierla.

Io Donna, The Workshop, Corigliano Calabro, 2004


Per l'edizione del Festival di Fotografia di Corigliano, con Gaetano Gianzi, Cosmo Laera e i ragazzi giù ci eravamo inventati questo workshop che però era anche un vero, e tra l'altro lunghissimo, servizio fotografico per Io Donna.
Lo scattavo in Polaroid 20X25. Così la foto che facevo si vedeva subito, grande.
Mica c'era il digitale come adesso.
Eravamo distrutti.
In giro per la città, con questo totem, in un caldo tropicale con le modelle, trucco capelli, la Silvia Meneguzzo e trenta "allievi" al seguito con i quali discutevamo ogni foto: Come?, perchè?, dove?

Ma il banco faceva scena. Faceva vero.
Faceva quella magia che poi con il digitale è diventata routine.
Vedere subito l'immagine finita, grande.
Come la pagina del giornale.
Vedere il percorso, vedere come, scatto dopo scatto, l'immagine diventava più precisa, la modella più giusta, la luce più speciale.



Here top, a backstage picture during the workshop in Corigliano, 2004.
Here below some Polaroid 8x10 out of the fashion story for Io Donna magazine.










E qualche anno prima...
Vogue Pelle 1989.
Ritratti di uomini d’affari: amministratori delegati, padroni di fabbriche di scarpe, borse, accessori.
Tipi in giacca e cravatta, abituati a comandare. Gente che non ha tempo, che vede questa cosa delle foto come una enorme rottura di scatole necessaria a compiacere il proprio ufficio stampa o il giornale a cui non puoi dire di no.
Insomma, come soggetti, i peggio.

Questi poi sempre di corsa.
Dovevo fermarli, e pensai che l’unico modo era di farli sbattere contro il grande banco di legno.

Pensavo ai ritratti dei divi di Hollywood degli anni '40 o ai bianchi e neri dello Studio Harcourt.
Con lo spot da dietro sui capelli lucidi di brillantina.
Volevo che sembrassero ispirati direttori d’orchestra, musicisti, artisti, poeti, viveurs.
Solo che quelle cravatte uccidevano tutta la poesia.
Con Roberto Da Pozzo che era l'art director ci inventammo di mettergli una specie di bavaglione nero intorno al collo, un tabarro che gli lasciava fuori solo la testa.
A quel punto potevo occuparmi di illuminare la testa come se fosse un oggetto a se stante, un teschio, uno still life.
Diciamo che, detto davvero senza cattiveria, non avevo nessun interesse per loro come persone, ma solo come soggetti/oggetti.

In ogni caso non avrei avuto il tempo per molto altro. Questi uscivano dalle loro berline pronti a fare un “click” e invece si trovavano in uno studio buio e vagamente minaccioso
con tre o quattro assistenti, i flash tutti spottati, nero ovunque e questa macchina - col soffietto tutto tirato - enorme, di legno con i meccanismi oro.

Faceva veramente impressione. Era bellissima.

Secchi ordini dati agli assistenti che spostavano con efficenza le luci, massima concentrazione. Il bavaglio nero.
Erano fottuti.
Si dovevano sucare tutta la menata.
E zitti. E fermi. Perché, chiaro, se ti muovi, anche pochissimo, vai fuori fuoco, e questo non deve assolutamente succedere.
Perché anche a farla lunga, più di due, tre, massimo quattro scatti, non potevo fare.
Troppo tempo se no, troppa tensione.

Alla fine gli piaceva, però.
Non durava molto di più del solito "click" ma era un'esperienza diversa, più intensa. Erano fighi. Dopo sorridevano, e non andavano via più.






















Here top: Toni Thorimbert at work with the Tachihara 8x10inch in Corigliano. 2004

Click on the pictures to enlarge.

3 commenti:

  1. Grandissimo Toni!
    Posseggo la Tachihara "piccola" la 4x5 e la uso con le polaroid 55 (ne ho ancora un bel po'!) per il "bancone" invece USO una Cambo legend 810,abbastanza "maneggevole" ,entrambi le uso per far foto ai miei figli per l'album di famiglia....oh,credo si ritroveranno un bell'album!! :-))
    IL 20X25 lo stampo a contatto (tri x 320)....unico rammarico,non aver MAI provato le polaroid 809,quelle di Gastel...:-((
    oggi le trovi a costi pazzeschi......

    RispondiElimina