Un'intervista di Giovanna Calvenzi per FOTOIT magazine




Una bella intervista che Giovanna mi ha fatto per il numero di FOTOIT di Settembre.
la riproduco qui sotto integralmente:

GC. Bè, non è che lo studente Christophe Antoine Thorimbert, detto Toni, nel 1973 fosse proprio una meraviglia.
Aveva bei capelli lunghi, certo, occhi espressivi, ma anche foruncoli, scarponcini Kickers dei bravi bambini svizzeri e teorizzava che i denti bisogna lavarseli almeno una volta la settimana.
In classe era un capo involontario. Godeva di indubbio carisma e lavorare gli piaceva molto purché si iniziasse dopo le 10.
Quella era la sua ora, prima non c’era neanche.
Allora ero la sua prof di linguaggio fotografico e storia della fotografia.
Avevo fatto una proiezione mettendo a confronto il lavoro su Mosca di Henri Cartier-Bresson e di William Klein e Thorimbert, unico della sua classe, aveva fatto suo da subito il linguaggio aggressivo di Klein.
Assorbiva come una spugna. Credo sia stato lo studente migliore dei miei undici anni di insegnamento.
Come lavoro di fine corso aveva realizzato una storia sui bambini di Pioltello, alla periferia di Milano, nel quale il diciassettenne autore e i suoi soggetti recitavano insieme per raccontare una storia di emarginazione ma anche di allegra arroganza.
Erano già evidenti in questo primo lavoro una grande padronanza linguistica e un’incredibile chiarezza di visione.
E i “Bambini di Pioltello” rimangono un saggio fotografico che viene sovente proposto in mostra (l’ultima volta nel 2015 a Palazzo della Ragione, a Milano, nella mostra “Italia Inside Out”). L’intervista potrebbe iniziare da qui, da questi ricordi e dai “Bambini di Pioltello”.


TT. “Bambini di Pioltello” è stato il mio primo lavoro pensato come tale, oggi si direbbe progetto, e probabilmente sono anche tra le mie migliori fotografie di sempre.
A distanza di - ormai molto - tempo ho il rammarico di non aver saputo leggere in quel momento l’importanza di quel lavoro… avrebbe potuto portare la mia carriera in una direzione tutta diversa da quella attuale.
Non sono certo pentito del mio percorso professionale e umano e credo che quegli anni, con quella testa e in quel tempo, non potevano che portare a quella che è stata ed è oggi la mia realtà.
Ma il dubbio mi rimane.
Forse avrei potuto fare il reporter, esagero, magari il fotografo di guerra.
Oggi qualche volta ci penso, anzi ogni tanto mi viene la voglia di cominciare a farlo ora.

GC. Credo che quando hai finito la scuola e hai avuto la fortuna di iniziare immediatamente a lavorare tu non ti sia posto un problema di “genere”.
Ti è stata offerta l’opportunità di lavorare con Fabio Simion, fotografo prevalentemente di studio, e lì hai imparato a usare le luci, a comporre su un fondo, senza chiederti dove saresti potuto andare. Però, per quello che ricordo, non ti sei mai accontentato. Facevi reportage per movimenti politici, costruivi storie per giornali giovani della Mondadori, fotografavi “per te stesso” senza neppure un progetto reale di mostra o di libro ma quasi per verificare quello che volevi e sapevi fare.
Quando hai avuto la consapevolezza che stavi andando in una direzione precisa, quella che sarebbe poi diventata la tua per molto tempo?


TT. No, in effetti non si trattava di scegliere un genere, si trattava molto più prosaicamente di riuscire a vivere di fotografia.
Comunque ero molto giovane e fare l’assistente e imparare la faccenda dello studio, e le luci e tutto il resto mi piaceva molto, era un mondo, un gioco, incredibile, tutto da scoprire.
Comunque, sì, ho fatto tanto, la fotografia mi piaceva in tutte le sue forme, è stata per molto tempo, e lo è ancora oggi, la mia chiave per aprire porte, attraversare e conoscere mondi e persone.
Credo di essere diventato veramente consapevole delle mie scelte, del mio valore e del mio percorso-linguaggio molto tardi però, a metà degli anni ‘90, quando avevo già macinato un bel curriculum e migliaia di foto.
Ma è stato in quel periodo, dopo una salutare crisi esistenzial-fotografica, che ho cominciato a far collimare quello che volevo con quello che facevo.

GC. La domanda a questo punto diventa molto semplice: cosa volevi e cosa facevi?

TT. In quel periodo facevo ormai molta moda e avevo anche abbastanza successo, Cioè facevo foto che piacevano, roba fatta bene, ma mi mancava qualcosa.
L’esperienza del ritratto per Amica, con Paolo Pietroni direttore, si era in qualche modo conclusa.
Anni di ritratti in banco ottico 10x12, 4/6/10 scatti massimo.
Ritratti ambientati a colori, complicati, scultorei.
Una grande esperienza che però non era più in linea con gli anni ‘90 che iniziavano.
Lo stesso Pietroni era passato in Condé Nast a dirigere un Vanity Fair mensile dove le fotografie erano più pittoriche, più in movimento.
Forse si era persa la purezza e anche l’innocenza degli anni ‘80. Quell’essere così o niente.
Ora bisognava essere prima di tutto “cool”.
Le mie foto erano buone, Non credo di aver quasi mai fatto foto brutte o sbagliate, ho sempre surfato sulla cresta dell’onda degli stili fotografici, ma proprio questo era diventato il mio limite. Cavalcavo l’onda, ma era la mia onda? Durante un servizio di moda in Kenya entrai in una crisi profonda: avevo con me una foto di mia figlia che avevo fatto con la Rolleiflex, una foto semplice, quadrata. Pensai: “ma perché le mie foto di moda non sono così?” e da quel giorno cambiai completamente modo di lavorare.
Tornai in periferia, a Quarto Oggiaro, dove tutto era cominciato, e misi insieme dieci foto da portare in America.
O la va o la spacca, ero deciso a chiudere se non avesse funzionato.
E come potrebbe succedere in un film, l’ultimo giorno mentre mestamente stavo facendo la valigia perché nessun giornale di New York mi aveva cagato, squillò il telefono. Era Greg Pond, photo editor di Details, il giornale più figo del mondo in quel momento.
Cambiai il volo e il giorno dopo ero da lui.
Quello che volevo stava cominciando a collimare con quello che facevo.

GC. Dal tuo racconto emerge una tensione costante nei confronti della professione. E credo sia vero che la tua straordinaria capacità di “surfare sulla cresta degli stili fotografici” sia stata una gioia per chi ti dava lavoro ma poteva diventare per te una sorta di gabbia. Al di là della reazione radicale che hai avuto in Kenya ci sono stati altri elementi che ti hanno aiutato a trovare una direzione più tua? Ricerche personali? Altri autori con i quali ti confrontavi?

TT. “Ispirazioni” è il titolo di una fortunata conferenza che faccio qua e là, quando me lo chiedono. Una conferenza nella quale svelo le immagini e gli autori che mi hanno influenzato e stimolato, specialmente all’inizio della mia formazione come fotografo.
L’accesso all’informazione e alla cultura “alta” non era un fatto scontato per un ragazzo di periferia senza un background familiare privilegiato, e quindi sì, avevo fame di sapere e ho rubato tutto quello che potevo a chi mi ispirava, ma poi alla fine, quando trovi la tua strada, è molto più vicina a te come persona, a te come cuore, che alla somma di tutto quello che hai visto e studiato nel tuo percorso di crescita come autore.
A un certo punto ti scatta un qualcosa dentro e mandi tutti a quel paese e dici che vi piaccia o no questo sono io, così vedo io.

GC. All’inizio di questa conversazione dici che i “Bambini di Pioltello” sono tra le migliori immagini che tu abbia realizzato.
Se da un punto di vista “formativo” il tuo lavoro è certamente di grande forza, non sottovaluterei tuttavia molti dei tuoi ritratti – che tu oggi forse ritieni troppo “classici” – ma anche e soprattutto molte delle tue immagini di moda. In questa direzione tu sei passato indenne tra l’immagine della donna solare e saltante della fine degli anni ’70 e la donna tossica e sciagurata i cui strascichi si vedono ancora qua e là.
Riesci in qualche modo a definire che tipo di “moda” ti interessa?


TT. La moda non è il paesaggio. Il paesaggio sta lì, che tu lo voglia fotografare o no. La moda è un prodotto che per sua necessità commerciale si evolve e cambia continuamente.
La moda non è un vestito, ma d’altra parte il vestito ne è parte integrante, fondamentale.
Mi sono innamorato delle potenzialità espressive dell'abito incontrando casualmente l’alta moda di Capucci che però avevo voluto, all’epoca scandalosamente, fotografare indossata da un personaggio androgino e futuristico, una modella che sembrava uscita da Blade Runner in un contesto diroccato e decadente.
La qualità di un fotografo che fotografa la moda è la flessibilità, la curiosità, il desiderio di mettersi in gioco continuamente e soprattutto la capacità di lavorare come parte di un team, di accettare di mettersi in gioco con gli altri.
È il vestito che ti dice come fare la foto, mai il contrario.
Questo se vuoi essere un vero fotografo di moda, non un pirla qualsiasi che fotografa una modella con addosso della roba.
Io amo molto la moda, amo molto quello che un abito può trasmettere, la sua potenzialità espressiva, ma è un lavoro molto difficile, molto più di quello che può sembrare.
Quando vedi una foto di moda semplice, naturale, immediata e spontanea allora sai che lì il fotografo ci ha dovuto davvero sudare.

GC. Vogliamo parlare dei tuoi libri? Cos’è per te un libro? Che significato ha? Cosa chiedi a te stesso e al libro mentre lo stai progettando/costruendo?


TT. Sono molto lento nel progettare e produrre libri… Infatti, a oggi, lasciando a parte cataloghi o libri con altri fotografi, ne ho fatti “solo” tre: Transfert uscito nel 2000, Carta Stampata del 2006, e l’ultimo, Seduction of Photography che ho presentato in anteprima ai Rencontres de la Photographie d' Arles a luglio e poi, diciamo ufficialmente, a fine Novembre in Corso Como 10 a Milano e poi in varie gallerie e istituzioni in Italia.
Transfert e Carta Stampata sono raccolte composte da immagini che vengono dall’archivio, mentre Seduction of Photography è il risultato di un lavoro pensato per prendere la forma di un volume.
Carta Stampata è una antologia del mio lavoro per l’editoria, un libro che a un certo punto si è reso necessario soprattutto per me, per mettere ordine e dare un valore, una coerenza, alle migliaia di fotografie di reportage, ritratto e moda che ho scattato nei primi trent’anni della mia carriera di professionista.
Transfert, ormai introvabile, è il mio libro autobiografico, preparato parallelamente al mio percorso psicanalitico e racconta attraverso foto “ritrovate” in archivio il mio mondo interiore, un po' tormentato, oscuro.
Seduction of Photography è una riflessione sulla fotografia, sul suo potere seduttivo, ma anche sulla sua assoluta ambiguità.
Comunque costruire un libro è un’enorme sofferenza felice, è come una relazione amorosa, ti fa felice, ma ti fa anche soffrire... Per editare S.O.P. ho passato un Natale da solo chiuso in un albergo deserto di Milano Marittima… da 10.000 foto dovevo arrivare a circa 50 … Bello, e terribile al tempo stesso…

GC. Vorrei concludere la nostra conversazione riflettendo su una tua dichiarazione che risale a molti anni fa. Nel 1982, in occasione di una tua prima mostra alla Galleria Il Diaframma di Milano, avevi scritto: “Legato, sia per la mia ambizione che per oggettive ragioni economiche, alla “fotografia cui segue fattura”, sono portato a riversare la mia tensione creativa all’interno del mercato editoriale”. E’ ancora così?

TT. Qualcosa di vero c’è ancora, però sempre meno… Questa affermazione, lungimirante, visto il periodo in cui è stata fatta, è tanta parte della mia storia e del mio atteggiamento.
Mi piaceva lavorare e lavorando trovavo gli spazi, i mezzi e gli stimoli per produrre le immagini che avevo dentro.
Ora naturalmente le cose sono un po’ diverse, il mercato è molto cambiato, la fotografia è molto cambiata, le necessità mie sono cambiate.
Oggi esprimersi al di fuori di una committenza ti dà margini creativi molto maggiori, anche perché l’editoria, la moda, la pubblicità stanno attraversando un periodo di transizione e assestamento importanti.

FOTOIT
è il giornale della FIAF federazione Italiana Associazioni Fotografiche

Click on the pictures to enlarge.

3 commenti: