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Zurich, 19 July 2009
E’ bello il libro di
Annie Leibovitz.
In inglese, è scritto con la semplicità formidabile della lingua parlata, come se la
Leibovitz ti stesse raccontando le sue avventure, giù nel bar sotto casa.
Ne ho sentite tante su di lei, anche di prima mano. Avevo un assistente a
New York che aveva lavorato con lei. Diceva che, assistenti, erano minimo in dieci e che nello studio c’erano valanghe di flashes a noleggio che non usavano mai, tenuti lì per mesi: roba che costava una fortuna. E che in viaggio,
Annie stava al telefono tutta notte con il suo analista e che pagavano conti d’albergo spaventosi. Mega produzioni, con tre, quattro locations di scorta ogni volta, prenotate, pagate, e mai usate.
Naturalmente non c’è niente di tutto questo nel suo libro. Nessuna confessione piccante, nessun trucco veramente segreto viene veramente svelato, ma solo il racconto, quasi modesto, di come
Annie Leibovitz fa le sue fotografie.
Parla dei suoi maestri, dei fotografi che rispetta e che l’hanno ispirata:
Robert Frank,
Diane Arbus,
Avedon e
Penn. Parla dei suoi inizi a “
Rolling Stone” e del suo tour con i "
Rolling Stones” dove dice “ I did everything you are supposed to do when you are in tour with the Stones”.
Parla della foto di
Lennon e
Yoko Ono, scattata poche ore prima che Jhon fosse ucciso da un pazzo davanti a casa. Di “
Gap” e “
American Express” le sue prime straordinarie campagne pubblicitarie che vinsero, direi a ragione, ogni tipo di premio.
Parla del famoso scandalo ( nel 1991!) per la copertina di
Vanity Fair con
Demi Moore nuda e incinta, di atleti e di ballerini, del processo
O.J. Simpson e dei suoi reportage di guerra a
Sarajevo e in
Ruanda, della moda per
Vogue e delle sue famose foto di gruppo.
Già i gruppi. Ci spiega ciò che avevamo già un po’ indovinato, e cioè che li ha sempre fatti “ a pezzi” cioè con più macchine fotografiche messe una in fianco all’altra, e che li ha sempre montati, successivamente, al computer. Ma dice anche, con una certa onestà, che per quanto ben fatto, un ritratto di gruppo non avrà mai la forza di un soggetto singolo. Parla a lungo della
Regina d’Inghilterra e delle situazioni assurde di quel set, ma anche di
Obama,
Shwarzenegger,
Patty Smith,
Nicole Kidman e
Jhonny Depp. Del loro carisma e di come la luce accarezzi con favore i loro volti.
Un racconto molto maschile, non per forza simpatico. Dice che non ha mai cercato di “mettere a suo agio” nessuno, che non chiede mai di sorridere per una foto. Dice che il suo modo di creare un’intesa è di parlare con franchezza, fare richieste precise e lavorare insieme al soggetto fino a creare una situazione condivisa.
Nel libro, ci sono, ovviamente, le foto di cui racconta, ma anche, molto curiose, le foto di “backstage” dai suoi set: Flashes, ombrelli, gli “octa” , i ventilatori, generatori, cavi, corde, pesi, cavalletti, gli enormi schermi per la luce montati in mezzo al deserto, o il suo tipico fondo grigio messo lì, come in uno studio, nel mezzo di una lussuosa suite di un grande albergo.
Parla della transizione, dapprima difficile, poi sempre più entusiasta, dalla pellicola al digitale. Parla dei suoi assistenti, e di come adorano farle notare se fa uno scatto sfuocato, dell’importanza degli “stand In”, le controfigure su cui provare la luce e l’inquadratura prima che arrivi il vero soggetto.
In mezzo a tutto questo ben di Dio riusciamo anche a sapere mille altre piccole, fondamentali, cose: che il cavalletto lo porta sempre, ma che poi non lo usa quasi mai; che odia quando i suoi assistenti continuano a misurare la luce con l’esposimetro e la forzano a fare una foto “esposta giusta” mentre lei la vuole fare “scura”; che qualche volta le grandi idee per le sue famose foto non le ha avute lei, ma qualcuno che passava di lì, e che la sua bravura è stata solo nel fare “clik”; che dopo un po’ che lavora in studio le viene voglia di mettersi a tracolla una Nikon e andare in giro a fare delle foto meno “costruite” e che comunque, per un fotografo avere il proprio studio è come avere una macchina sportiva, non è certo la cosa che ti fa fare foto migliori, che quando fai la moda devi ricordarti che è il vestito che comanda; che nelle doppie pagine non devi mettere mai nessuno nel mezzo dell’inquadratura perché se no finirà per scomparire nel mezzo della piega del giornale; che prima di fotografare qualcuno è bene sapere chi è, cosa fa, cosa ha fatto, e sopratutto chi l’ha fotografato, e come, prima di te; che in esterni, la luce più bella per un ritratto è uno o due metri dentro ad un portone, e che, (anche a lei) fa un po' strano quando dicono: “hai colto l’anima di tizio, o caio”, dato che sai bene che in un ritratto è già tanto riuscire a far somigliare qualcuno a se stesso. Insomma, una piccola meraviglia. L’ho letto tutto d’un fiato. Poi, era notte, ho spento la luce, e prima di addormentarmi ho pensato: “ Che bello…,
Annie Leibovitz è proprio come me….”
Annie Leibovitz
At WorkJhonatan Cape London
237 pagine.
In vendita in
Corso Como 10 Milano45,00 Euro.
(Un lungo e ben documentato articolo di
Andrew Goldman sugli attuali, enormi, problemi finanziari di
Annie Leibovitz si trova, naturalmente in inglese, sul sito del
New York Magazine.)
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