Some random inspirations from a museum tour.
Mimmo Paladino.
Umberto Boccioni.
Fausto Melotti.
La "montagna di sale", di Paladino, vista dal museo del '900. l'opera è ancora in restauro dopo i vandalismi subiti per mano dei tifosi del Milan.
Il riflesso della struttura al neon di Lucio Fontana e il Duomo.
"Lasciate una traccia del vostro passaggio" Franco Vaccari.
Giuro che queste fotine, fatte di nascosto con l'Iphone, non hanno nessuna pretesa, se non quella di condividere il piacere dell'incontro con l'Arte e, per chi non le avesse ancora viste, stimolare la voglia di andarle a vedere di persona.
Mimmo Paladino
Palazzo Reale, Milano.
Fino al 10/7/2011.
Museo del Novecento.
Palazzo dell'Arengario, Milano.
Permanente.
Fuori! Arte e spazio urbano 1968/1976 fino al 4 Settembre
(all'interno del Museo del Novecento)
Click on the pictures to enlarge.
The pinhole photography in the words and life of Alessandra Capodacqua, photographer, artist.
Puoi raccontarci le tappe del tuo percorso artistico e professionale e in particolar modo la tua passione per la fotografia “stenopeica?”
Ho ricevuto in regalo per i miei 18 anni una Canon AT1 dai miei genitori. Con quella macchina ho imparato a fotografare e ho cercato di dimostrare le mie capacità artistiche ai miei, dato che erano piuttosto restii. Pensavano che la fotografia mi avrebbe distratto dai miei studi. Dopo tante discussioni si sono però convinti e addirittura mi hanno dato il permesso di usare uno stanzino di casa come camera oscura. Un vero paradiso privato a cui avevo accesso solo io! Se torno indietro a quegli anni pionieristici mi intenerisco al pensiero di quei 3 metri quadri. Non avevo neanche un tavolo, perché il soffitto era troppo basso e le bacinelle le dovevo tenere per terra. Sviluppavo le mie fotografie inginocchiata e quando ero stanca mi sedevo, sempre rigorosamente per terra. Già a quei tempi potrei dire che praticavo una fotografia a basso livello…
Alla fine dell’università, a Napoli, avevo acquisito una buona pratica della fotografia, rigorosamente in bianco e nero, e una caotica e un po’ selvaggia conoscenza della sua storia. A quel punto mi sono trasferita a Firenze per respirare un’aria nuova. Avevo un lavoro come traduttrice che mi lasciava un po’ di tempo libero per approfondire la mia passione. A Firenze trovai anche un corso di fotografia un po’ atipico, tenuto da Luciano Ricci, un insegnante che aveva raccolto attorno a sé un gruppo di giovani provenienti da tutto il mondo. Ci incontravamo a casa sua e parlavamo di fotografia: Lui ci mostrava i libri dei maestri e ne discutevamo a lungo. Spesso lavoravamo in camera oscura e lui ci apriva le porte ai piccoli e grandi segreti per migliorare le nostre stampe. Insomma, una specie di piccola agorà dove ho imparato a lavorare per progetti e a difendere il mio lavoro con la forza delle idee. Una grande lezione.
Dopo due anni di questi incontri, ho aperto con tre amici un piccolo studio commerciale. Per diverso tempo ci siamo barcamenati nel difficile mondo della fotografia pubblicitaria e di ritratto. Se ripenso a quegli anni, vedo l’ingenuità del nostro progetto ma anche la voglia di imparare nuovi strumenti e mettere alla prova le nostre capacità. Sono uscita da quell’esperienza con una buona conoscenza della fotografia di studio e con una consapevolezza: non avrei mai potuto essere una fotografa commerciale.
E’ stato a quel punto che ho dato una svolta alla mia carriera. Ho abbandonato l’attività di traduttrice e ho cominciato a insegnare fotografia. Sentivo che era importante passare agli altri quello che avevo imparato e allo stesso momento avere del tempo per portare avanti i miei progetti personali.
Nel 1992 ho incontrato la fotografia stenopeica. Ed è stato un incontro fortuito e straordinario, una di quelle esperienze che segnano la vita in modo indelebile.
In quell’anno ho avuto dei problemi agli occhi. Ho avuto varie operazioni e per lungo tempo non sono stata in grado di vedere bene. Mi sentivo in una gabbia, tutto quello che fotografavo era sfocato, non riconoscevo quello che pensavo di aver visto, le inquadrature non erano quelle che avrei voluto. Mi sentivo in un vicolo cieco. E’ stato allora che mi è capitato tra le mani un piccolo catalogo di una mostra di fotografia stenopeica negli Stati Uniti. Quell’estate ho dedicato tutto il mio tempo libero a studiare quelle fotografie, la breve storia della fotografia stenopeica contenuta nel catalogo e le biografie e i racconti avventurosi di questi fotografi minimalisti. Mi è sembrato un miracolo poter costruire da me dei congegni che mi permettessero di fotografare senza che io avessi bisogno di inquadrare in un mirino o di mettere a fuoco. Insomma, sono passata in pochi mesi dallo stato di fotografa un po’ depressa perché scontenta delle sue fotografie sfocate a fotografa entusiasta delle sue fotografie “intuitive”. Indescrivibile l’emozione sorprendente dei risultati dei provini. Era come guardare quello che avevo pensato di fotografare arricchito di una serie di dettagli imprevedibili. Non solo era nata una nuova passione, ma nel giro di 6 mesi i miei occhi erano tornati perfettamente normali, lasciando i medici senza una spiegazione scientifica.
Ci puoi raccontare cos’è esattamente una fotocamera stenopeica?. Come funziona e come si costruisce e che tipi di “modelli” funzionano meglio o sono più diffusi?
La fotografia a foro stenopeico è un procedimento fotografico che sfrutta il principio della camera oscura. Al posto dell’obiettivo c’è un foro stenopeico (dal greco stenos opaios, dotato di uno stretto foro), generalmente praticato in una lamina di metallo sottile. La fotocamera con foro stenopeico produce immagini poco nitide, perché i raggi luminosi provenienti dal soggetto viaggiano in modo non lineare creando i cosiddetti “cerchi di confusione”. D’altra parte, questa poca nitidezza si estende a tutta la scena inquadrata, creando una profondità di campo illimitata.
È estremamente facile costruire una macchina a foro stenopeico, basta un contenitore a tenuta di luce, una lamina di metallo su cui praticare il foro e del nastro isolante nero per creare l’otturatore.
In commercio ormai ne esistono moltissimi modelli e praticamente per ogni formato di negativo. Le più pregiate sono costruite in legno e ottone, quelle più semplici in plastica.
Usi solo macchine stenopeiche?
Dal 1998 uso anche le cosiddette toy camera: Holga, Diana e tante altre. Da qualche anno ho iniziato a collezionare macchine di plastica e di bakelite che ho trovato in mercatini e su eBay. Sono tutte rigorosamente funzionanti e le uso per sfruttarne le diverse caratteristiche.
Scansisci le tue immagini e le manipoli via computer o le tue foto stenopeiche non subiscono nessun processo digitale?
Scansiono i negativi perché ormai è difficile trovare un laboratorio affidabile che stampi direttamente da negativo. Il mio intervento di post produzione si limita generalmente a una correzione del colore e minimi aggiustamenti dell’inquadratura. Il più grande insegnamento del foro stenopeico è stato per me imparare ad accettare le immagini che questo strumento mi propone.
Conosci altri fotografi che usano macchine stenopeiche? Esiste un gruppo? Un’associazione?
Alcuni anni fa insieme ad altri fotografi abbiamo creato l’Osservatorio per il foro stenopeico presso il MUSINF di Senigallia. Ogni anno, durante la “notte dei musei” a metà maggio il museo organizza una mostra e degli eventi collaterali dedicati alla fotografia stenopeica.
Cosa ritieni questa macchina abbia dato - più di una fotocamera tradizionale - alle tue possibilità espressive o alla tua poetica?
Come spesso ripeto ai miei studenti, il foro stenopeico mi ha insegnato tantissimo. Non solo mi ha aiutato a superare una fase difficile della mia vita, ma mi ha fatto soprattutto capire come accettare gli errori e soprattutto come trasformarli in un’attitudine positiva e creativa.
Nel mio lavoro vado alla ricerca di tracce e segni della memoria, piuttosto che di una fedele registrazione del reale. Non cerco di raccontare un luogo, un’emozione, una storia per immagini, preferisco interpretarlo seguendo un metodo intuitivo. L'uso di macchine fotografiche a foro stenopeico mi obbliga a riprese con lunghe esposizioni e mi permette di percepire la luce e il tempo che si depositano sull'emulsione sensibile. Per quanto riguarda l’arricchimento delle mie possibilità espressive, il foro mi ha permesso di avere un approccio più lento e meditativo nei confronti della fotografia. Senza dubbio i progetti che considero fondamentali nel mio lavoro - e sempre in progress - da quello sugli autoritratti a quello sui simboli e le icone, per citare i più importanti, hanno beneficiato del fatto che queste macchine hanno il potere di svelare dettagli, entità, percezioni invisibili nel momento in cui si fotografa, rendendo manifesto quel misterioso insieme di spiritualità e trascendenza che ci circonda.Questi strumenti low-tech mi hanno fatto esplorare livelli temporali ed emotivi prima sconosciuti, facendomi viaggiare attraverso le dimensioni multiple del tempo, delle emozioni, la tangibilità delle percezioni e l’ambiguità della visione.
To know more:
http://www.alessandracapodacqua.com
http://www.google.it/search?q=pinhole+photography&ie=utf-8&oe=utf-8&aq=t&rls=org.mozilla:it:official&client=firefox-a
Style magazine. Styled by Alessandro Calascibetta.
Colore, multistrato. Il pane di Alessandro.
Un mix bellissimo da fotografare.
Come fondo ho messo una moquette molto scura, l'ho lasciata un pò cadere, così faceva delle pieghe e prendeva la luce.
L'avevo già riesumata recentemente per Io Donna, la moquette.
Come fondo mi è sempre piaciuto, l'avevo notato ai tempi - era il 1974 - in cui Marcella Campagnano, fotografa, femminista, scattava in casa sua le donne dei suoi "ruoli".
Potete cliccare questo LINK per dare un'occhiata.
Qui sotto invece due foto dal backstage. Un pò sbiadite, per la verità. Ma, a parte quando partiva il flash, di luce in studio ce n'era davvero poca.
Style
June issue
STAR IN VETTA
Styled by Alessandro Calascibetta.
Photographed by Toni Thorimbert.
Milano digital studios.
Backstage photography by Claudio Rizzolo.
This one is big: a book celebrates Dolce & Gabbana 20 years of men's fashion.
Misura 40 centimetri per 28, è largo 6.
Incalcolabili le pagine, che hanno la costa d'oro.
Ci sono dentro le campagne pubblicitarie, i vestiti, alcune immagini da redazionali.
Ad un certo punto c'è una mia foto.
Mi avevano promesso che la avrebbe impaginata Fabien Baron.
Invece poi no.
Peccato, ero eccitato.
La mia foto, da Mondo Uomo, 1991.
Bello: spesso nel libro, l'abito e il suo "cartamodello"
ICONS
Dolce & Gabbana
1990 2010
Creative director: Luca Stoppini
Click on the pictures to enlarge.
Incalcolabili le pagine, che hanno la costa d'oro.
Ci sono dentro le campagne pubblicitarie, i vestiti, alcune immagini da redazionali.
Ad un certo punto c'è una mia foto.
Mi avevano promesso che la avrebbe impaginata Fabien Baron.
Invece poi no.
Peccato, ero eccitato.
La mia foto, da Mondo Uomo, 1991.
Bello: spesso nel libro, l'abito e il suo "cartamodello"
ICONS
Dolce & Gabbana
1990 2010
Creative director: Luca Stoppini
Click on the pictures to enlarge.
Mamma mia! Ben "elbow" Spies for the cover of Riders magazine.
"Mamma mia che mamma": Così inizia il pezzo di Moreno Pisto su Mary e Ben Spies.
E in effetti la mamma-manager è molto simpatica, ma - wow - tanta roba..
Americanissima. Lui un pò con il broncio, scocciato si guarda in giro cercando qualche scusa per non farle - le foto. ma non c'è scampo, anche perchè la mamma, alle foto - e al giubbino di Miu Miu - ci tiene parecchio.
Potenza della Mamma.
Riders magazine
June issue
Ben and Mary Spies.
Mother & son.
Photographed by Toni Thorimbert in Jerez de la Frontera
Backstage photography by Stefania Molteni
Click on the pictures to enlarge.
The privilege to be a photographer: Vasco Rossi for the cover of Io Donna magazine
Brutto, talmente brutto da non essere nemmeno fotogenico: L’albergo dove Vasco e la sua band prova i pezzi della prossima tournè è una specie di condominio giallo ocra in mezzo alle rotonde della provinciale che porta a Ferrara. C’è una piscinona, un bowling per bambini con i paperi alle pareti, ci sono tante stanze, o saloni dove - quel giorno è Domenica – della gente in tuta balla la “baciata”. Poi - in fondo - c’è la sala prove. Ci si arriva dal retro. Vasco scende dalla sua stanza e prende la Bentley per fare i venti metri che potrebbe fare comodamente da dentro l’albergo. Ma - è giusto - bisogna accontentare i cento fans che stazionano da ore accampati là fuori.
Comunque, portare a casa la copertina.
Come?, ma sopratutto: Dove?
Mi guardo in giro un pò sconsolato.
Maurizio (Varotti, direttore creativo di Io Donna. N.d.R) dice che no, il fondale non lo vuole mettere.
Gli piacerebbe il cielo, forse.
Ma il cielo oggi è difficile, troppo lontano.
Così è nata questa copertina “africana” di Vasco. A parte lui, non avevamo quasi niente, e quel niente era brutto: La moquette verde, una parete di laminato azzurro con i profilini di acciaio, un’amplificatore.
Luce, niente di che. Un flashino. Con Vasco non è che ti metti lì a costruire dei set. Però quell'angoletto con i cavi e il "Marshall" mi ha fatto venire in mente le foto di certi fotografi africani che amo molto: Malik Sidibè. Le foto che scattava nelle discoteche negli anni ’60. Il ballo. I gesti esagerati. Poi, Kwame Apagya che fotografa le persone davanti, o meglio - dentro- a fondali dipinti a mano che rappresentano, mediamente, le loro aspirazioni: Una casa con la TV e lo stereo, un ufficio con i computers e il cellulare. E poi gli autoritratti di Samuel Fosso: Di nuovo certi gesti, e quei fondali lì fatti di niente. Non "giusti".
Malik Sidibè
Philip Kwame Apagya
Samuel Fosso
Qui sotto il resto del servizio:
Fotografare Vasco è un’esperienza. Che ti lascia una vertigine, la stanza gira.
Lui è vero, e quindi, tutto quello che è farlocco con lui non funziona.
Per me, lui vive in una dimensione - tipo - ultraterrena.
Segue un percorso tutto suo.
Per fotografarlo lo devo seguire, accompagnare, precedere. Lo devo intercettare.
Non lo puoi fermare, almeno, io non ci provo e non lo faccio. Cerco di stare nel flusso dei suoi movimenti e delle sue parole e delle sue canzoni. Scatto come se facessi, io, parte di un suo piano, divento ritmo, pedina di un suo progetto.
Lui parla, canta, fuma, si muove sempre. Torna e va. “sono ancora qua, sono ancora qua” te lo sussurra, te lo canta, poi magari te lo grida. E' un gioco, una performance. E’ Rock e lo devi ballare, sono cazzi tuoi. Lui c’è per quel secondo. Devi fare in modo di esserci anche tu.
Ma non è mica stronzo. Anzi. Se ci sei, il primo a godere è proprio lui.
Qui sotto gli scatti dal backstage di Claudio Rizzolo:
Con Maurizio Varotti e Tania Sachs.
Vasco con Tania Sachs.
Per vedere il video dal backstage:
http://video.leiweb.it/dietro-cover-io-donna-vasco-rossi/31065e8c-8c33-11e0-a5d9-1c0fe19cff90
Click on the pictures to enlarge.
Comunque, portare a casa la copertina.
Come?, ma sopratutto: Dove?
Mi guardo in giro un pò sconsolato.
Maurizio (Varotti, direttore creativo di Io Donna. N.d.R) dice che no, il fondale non lo vuole mettere.
Gli piacerebbe il cielo, forse.
Ma il cielo oggi è difficile, troppo lontano.
Così è nata questa copertina “africana” di Vasco. A parte lui, non avevamo quasi niente, e quel niente era brutto: La moquette verde, una parete di laminato azzurro con i profilini di acciaio, un’amplificatore.
Luce, niente di che. Un flashino. Con Vasco non è che ti metti lì a costruire dei set. Però quell'angoletto con i cavi e il "Marshall" mi ha fatto venire in mente le foto di certi fotografi africani che amo molto: Malik Sidibè. Le foto che scattava nelle discoteche negli anni ’60. Il ballo. I gesti esagerati. Poi, Kwame Apagya che fotografa le persone davanti, o meglio - dentro- a fondali dipinti a mano che rappresentano, mediamente, le loro aspirazioni: Una casa con la TV e lo stereo, un ufficio con i computers e il cellulare. E poi gli autoritratti di Samuel Fosso: Di nuovo certi gesti, e quei fondali lì fatti di niente. Non "giusti".
Malik Sidibè
Philip Kwame Apagya
Samuel Fosso
Qui sotto il resto del servizio:
Fotografare Vasco è un’esperienza. Che ti lascia una vertigine, la stanza gira.
Lui è vero, e quindi, tutto quello che è farlocco con lui non funziona.
Per me, lui vive in una dimensione - tipo - ultraterrena.
Segue un percorso tutto suo.
Per fotografarlo lo devo seguire, accompagnare, precedere. Lo devo intercettare.
Non lo puoi fermare, almeno, io non ci provo e non lo faccio. Cerco di stare nel flusso dei suoi movimenti e delle sue parole e delle sue canzoni. Scatto come se facessi, io, parte di un suo piano, divento ritmo, pedina di un suo progetto.
Lui parla, canta, fuma, si muove sempre. Torna e va. “sono ancora qua, sono ancora qua” te lo sussurra, te lo canta, poi magari te lo grida. E' un gioco, una performance. E’ Rock e lo devi ballare, sono cazzi tuoi. Lui c’è per quel secondo. Devi fare in modo di esserci anche tu.
Ma non è mica stronzo. Anzi. Se ci sei, il primo a godere è proprio lui.
Qui sotto gli scatti dal backstage di Claudio Rizzolo:
Con Maurizio Varotti e Tania Sachs.
Vasco con Tania Sachs.
Per vedere il video dal backstage:
http://video.leiweb.it/dietro-cover-io-donna-vasco-rossi/31065e8c-8c33-11e0-a5d9-1c0fe19cff90
Click on the pictures to enlarge.
Iscriviti a:
Post (Atom)