"Azzardo di classe" an interview by Elisa Contessotto for the october issue of "Fotografare" magazine






Elisa Contessotto: Come sei entrato in contatto con il mondo della fotografia?
Toni Thorimbert: Mio papà era un grafico e io da ragazzo disegnavo benissimo, ero portato. Nonostante questo, i miei genitori, finite le scuole medie mi mandarono a fare il liceo scientifico.
Fu un anno disastroso. Finalmente, dopo essere stato bocciato, mi mandarono ad una scuola di grafica: l’Umanitaria di Milano ( oggi la Bauer ).
Oltre alla grafica c’erano i corsi di fotografia, che mi appassionarono e che alla fine seguii.



Selfportrait, 1970.

E.C: Quali sono stati i tuoi maestri?
T.T: Intanto, i miei professori all’Umanitaria. Era il 1972, Giovanna Calvenzi era la mia insegnante di storia della fotografia.
Lei mi fece conoscere William Klein, che adoravo e che emulavo nei miei bianchi e neri contrastati e grandangolati, Henri Cartier Bresson, un grandissimo, ma che all’epoca trovavo un po’ noioso, Ugo Mulas, un gigante.
E poi tutti gli altri: Avedon, Penn, Don Mc Callin, Robert Frank, Helmut Newton, Lee Friedlander, Diane Arbus, solo per citarne alcuni.

E.C: Come è stato il primo approccio con il mercato fotografico?
T.T: Onestamente non molto difficile. Finita la scuola, era il 1974, trovai subito lavoro come assistente da Fabio Simion, un bravo fotografo di still life e arredamento, ma a quell’epoca, seppur molto giovane, frequentavo già lo studio di Gabriele Basilico, di Gianni Berengo Gardin ed ero amico di Amilcare Ponchielli, un artista che sarebbe poi diventato photo editor di tanti giornali per i quali ho lavorato.
Il mio primo grosso cliente è stata la Mondadori: ero andato a presentarmi a Duepiù, un giornale patinato che trattava tematiche legate alla vita di coppia e per il quale lavoravano fotografi bravi, Will Mc Bride, per citarne solo uno. Io ci andai con una scatola di cartone dell’Agfa con dentro una ventina di scatti in BN fatti ai miei amici nel weekend. La settimana dopo ero a Roma, stavo in un grande albergo, e scattavo copertine e servizi.
Io che all’epoca sapevo a malapena esporre correttamente un rullo.

E.C
: Quale corpo macchina prediligi attualmente?
T.T: Ho lavorato con tutte le macchine possibili ed immaginabili: dalle “usa e getta” al banco ottico 20X25.


On location with the 4x5 toyo folding, 1985 circa.

Non per una fissazione tecnica ma piuttosto per il diverso atteggiamento che ognuna di queste macchine ti consente e anche il diverso atteggiamento che ogni diversa fotocamera impone al soggetto che hai davanti.
Sono sicuramente un eclettico: ho iniziato con le Nikon 35 mm, per poi passare molto presto al banco 10X12. L’ho usato per fare veramente tutto, ritratti, moda, reportage. Perfino foto in movimento.



On location with the 4x5 toyo folding, 1985 circa.


Era veramente il prolungamento del mio occhio e del mio braccio. Poi negli anni ‘90 ho lavorato molto con le Mamiya e con la Pentax 645, una macchina che si usava come una reflex 35 ma che usava il rullo 120, una macchina davvero stupenda.


Shooting Mimmo Paladino with the Pentax 645, 1991 circa

Poi sono passato alla Rollei biottica, altra macchina che ha segnato tanto il mio stile e che ancora uso insieme ad una Nikon F3 con il 50mm.
Naturalmente oggi uso la tecnologia digitale ma generalmente noleggio di caso in caso il corpo o le ottiche che mi servono.


On location with the 8x10 Toyo folding, 2004 circa.

E.C: Quali sono gli elementi che ritieni indispensabili in una fotografia?
T.T: La profondità, sicuramente.
La profondità di un’immagine è generalmente prodotta dall’intensità dell’esperienza che l’ha prodotta, da quanto coinvolti sono stati gli attori di quell’esperienza.
Il rischio.
Credo che per fare una buona fotografia, che è cosa ben diversa da una bella fotografia, bisogna che qualcosa di noi sia stato in qualche modo messo a rischio: una convinzione, un’abitudine, una parte di noi stessi, una parte di una relazione. Correre dei rischi fa molto bene alle immagini.

E.C: Preferisci le foto in studio o in esterno?
T.T: Lavoro bene in entrambe le situazioni.
Sono un fotografo abbastanza parco di scatti, non amo scattare troppo e soprattutto la mia capacità di concentrazione è limitata; in esterno, dove sono maggiormente sollecitato e insieme distratto dai mille aspetti della realtà mi sento generalmente molto a mio agio, ma negli anni ho sviluppato la disciplina necessaria a realizzare anche lunghi servizi in studio, con tutta la claustrofobia creativa che questo alle volte produce.

E.C: In che rapporto stanno ricerca creativa ed esigenze di mercato?
T.T: Difficile generalizzare. Anche quello che definiamo “ricerca creativa” molto spesso risponde comunque ad alcune esigenze di mercato, magari in modo più sottile o nascosto. Il mondo dell’arte non è che un grande mercato delle idee e delle immagini, comunque vengano esse prodotte. Credo che per un autore e per un artista il segreto sia quello di non operare mai grandi compartimenti nella propria testa e nel proprio operato, lasciare che le nostre idee e la nostra ricerca creativa si faccia contaminare dal mondo reale e dalle sue esigenze.

E.C: Come sta evolvendo, e come sarà nel prossimo futuro, la fotografia di moda?
T.T: Pochissimi fotografi scattano la maggior parte delle grandi campagne pubblicitarie dei grandi marchi della moda e del lusso che a loro volta sono accentrati nelle mani di pochi grandi gruppi industriali. Alcuni giornali di moda monopolizzano le tendenze della moda e delle immagini che la rappresentano.
Molto potere nelle mani di pochi, mentre i tanti vivacchiano cibandosi delle briciole che cascano dal banchetto dei pochi eletti.
Credo che questa tendenza sia qui per durare.
Per chi è fuori da questi giochi non resta che intraprendere il proprio rapporto con la moda come un percorso di ricerca e di sperimentazione, un territorio che è comunque ancora uno dei più favorevoli allo sviluppo della fantasia e della creatività.

E.C: Ci racconteresti la storia di una tua fotografia a cui sei maggiormente legato?
T.T: Sono molte le immagini a cui mi sono legato sentimentalmente in questi molti anni di fotografia.
Dovendone citare una direi la fotografia di un ragazzino di Pioltello che mostra i muscoli.



Quella fotografia è tratta dal mio primo reportage pensato come tale, con una narrativa ed una continuità stilistica.
Presentata, insieme ad altre, al mio esame finale della scuola di fotografia, l'ho scattata quando avevo 17 anni, cioè pochi di più del ragazzino ritratto nella foto. Nel tempo, quel ragazzino è diventato un po’ il mio simbolo, una specie di mio alter ego.
Mi riconosco nella sua faccia da schiaffi, nella sua ingenua arroganza.

E.C: Hai dei libri sulla fotografia da consigliare?
T.T: L’elenco sarebbe davvero troppo lungo, ma per semplificare direi che consiglio di investire molto di più in libri che in attrezzatura.
I buoni libri sono fondamentali per la crescita di un fotografo, e proprio a questo proposito, ho fatto recentemente una conferenza, promossa dall’ Afip, che si chiama “ispirazioni” nella quale racconto il rapporto creativo che ho instaurato negli anni con i libri degli autori che ho amato.
Potete vedere la conferenza a questo link :
http://tonithorimbert.blogspot.it/2013/07/lectio-magistralis-triennale-milano.html
Lì, oltre alla mia storia, ci sono tutti i libri che sono stati importanti per me e che sicuramente mi sento di consigliare a tutti.

"Azzardo di Classe"
An interview by Elisa Contessotto.
Fotografare magazine
October 2013


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