The pinhole photography in the words and life of Alessandra Capodacqua, photographer, artist.




Puoi raccontarci le tappe del tuo percorso artistico e professionale e in particolar modo la tua passione per la fotografia “stenopeica?”


Ho ricevuto in regalo per i miei 18 anni una Canon AT1 dai miei genitori. Con quella macchina ho imparato a fotografare e ho cercato di dimostrare le mie capacità artistiche ai miei, dato che erano piuttosto restii. Pensavano che la fotografia mi avrebbe distratto dai miei studi. Dopo tante discussioni si sono però convinti e addirittura mi hanno dato il permesso di usare uno stanzino di casa come camera oscura. Un vero paradiso privato a cui avevo accesso solo io! Se torno indietro a quegli anni pionieristici mi intenerisco al pensiero di quei 3 metri quadri. Non avevo neanche un tavolo, perché il soffitto era troppo basso e le bacinelle le dovevo tenere per terra. Sviluppavo le mie fotografie inginocchiata e quando ero stanca mi sedevo, sempre rigorosamente per terra. Già a quei tempi potrei dire che praticavo una fotografia a basso livello…



Alla fine dell’università, a Napoli, avevo acquisito una buona pratica della fotografia, rigorosamente in bianco e nero, e una caotica e un po’ selvaggia conoscenza della sua storia. A quel punto mi sono trasferita a Firenze per respirare un’aria nuova. Avevo un lavoro come traduttrice che mi lasciava un po’ di tempo libero per approfondire la mia passione. A Firenze trovai anche un corso di fotografia un po’ atipico, tenuto da Luciano Ricci, un insegnante che aveva raccolto attorno a sé un gruppo di giovani provenienti da tutto il mondo. Ci incontravamo a casa sua e parlavamo di fotografia: Lui ci mostrava i libri dei maestri e ne discutevamo a lungo. Spesso lavoravamo in camera oscura e lui ci apriva le porte ai piccoli e grandi segreti per migliorare le nostre stampe. Insomma, una specie di piccola agorà dove ho imparato a lavorare per progetti e a difendere il mio lavoro con la forza delle idee. Una grande lezione.
Dopo due anni di questi incontri, ho aperto con tre amici un piccolo studio commerciale. Per diverso tempo ci siamo barcamenati nel difficile mondo della fotografia pubblicitaria e di ritratto. Se ripenso a quegli anni, vedo l’ingenuità del nostro progetto ma anche la voglia di imparare nuovi strumenti e mettere alla prova le nostre capacità. Sono uscita da quell’esperienza con una buona conoscenza della fotografia di studio e con una consapevolezza: non avrei mai potuto essere una fotografa commerciale.
E’ stato a quel punto che ho dato una svolta alla mia carriera. Ho abbandonato l’attività di traduttrice e ho cominciato a insegnare fotografia. Sentivo che era importante passare agli altri quello che avevo imparato e allo stesso momento avere del tempo per portare avanti i miei progetti personali.



Nel 1992 ho incontrato la fotografia stenopeica. Ed è stato un incontro fortuito e straordinario, una di quelle esperienze che segnano la vita in modo indelebile.
In quell’anno ho avuto dei problemi agli occhi. Ho avuto varie operazioni e per lungo tempo non sono stata in grado di vedere bene. Mi sentivo in una gabbia, tutto quello che fotografavo era sfocato, non riconoscevo quello che pensavo di aver visto, le inquadrature non erano quelle che avrei voluto. Mi sentivo in un vicolo cieco. E’ stato allora che mi è capitato tra le mani un piccolo catalogo di una mostra di fotografia stenopeica negli Stati Uniti. Quell’estate ho dedicato tutto il mio tempo libero a studiare quelle fotografie, la breve storia della fotografia stenopeica contenuta nel catalogo e le biografie e i racconti avventurosi di questi fotografi minimalisti. Mi è sembrato un miracolo poter costruire da me dei congegni che mi permettessero di fotografare senza che io avessi bisogno di inquadrare in un mirino o di mettere a fuoco. Insomma, sono passata in pochi mesi dallo stato di fotografa un po’ depressa perché scontenta delle sue fotografie sfocate a fotografa entusiasta delle sue fotografie “intuitive”. Indescrivibile l’emozione sorprendente dei risultati dei provini. Era come guardare quello che avevo pensato di fotografare arricchito di una serie di dettagli imprevedibili. Non solo era nata una nuova passione, ma nel giro di 6 mesi i miei occhi erano tornati perfettamente normali, lasciando i medici senza una spiegazione scientifica.



Ci puoi raccontare cos’è esattamente una fotocamera stenopeica?. Come funziona e come si costruisce e che tipi di “modelli” funzionano meglio o sono più diffusi?

La fotografia a foro stenopeico è un procedimento fotografico che sfrutta il principio della camera oscura. Al posto dell’obiettivo c’è un foro stenopeico (dal greco stenos opaios, dotato di uno stretto foro), generalmente praticato in una lamina di metallo sottile. La fotocamera con foro stenopeico produce immagini poco nitide, perché i raggi luminosi provenienti dal soggetto viaggiano in modo non lineare creando i cosiddetti “cerchi di confusione”. D’altra parte, questa poca nitidezza si estende a tutta la scena inquadrata, creando una profondità di campo illimitata.
È estremamente facile costruire una macchina a foro stenopeico, basta un contenitore a tenuta di luce, una lamina di metallo su cui praticare il foro e del nastro isolante nero per creare l’otturatore.
In commercio ormai ne esistono moltissimi modelli e praticamente per ogni formato di negativo. Le più pregiate sono costruite in legno e ottone, quelle più semplici in plastica.









Usi solo macchine stenopeiche?
Dal 1998 uso anche le cosiddette toy camera: Holga, Diana e tante altre. Da qualche anno ho iniziato a collezionare macchine di plastica e di bakelite che ho trovato in mercatini e su eBay. Sono tutte rigorosamente funzionanti e le uso per sfruttarne le diverse caratteristiche.

Scansisci le tue immagini e le manipoli via computer o le tue foto stenopeiche non subiscono nessun processo digitale?

Scansiono i negativi perché ormai è difficile trovare un laboratorio affidabile che stampi direttamente da negativo. Il mio intervento di post produzione si limita generalmente a una correzione del colore e minimi aggiustamenti dell’inquadratura. Il più grande insegnamento del foro stenopeico è stato per me imparare ad accettare le immagini che questo strumento mi propone.



Conosci altri fotografi che usano macchine stenopeiche? Esiste un gruppo? Un’associazione?

Alcuni anni fa insieme ad altri fotografi abbiamo creato l’Osservatorio per il foro stenopeico presso il MUSINF di Senigallia. Ogni anno, durante la “notte dei musei” a metà maggio il museo organizza una mostra e degli eventi collaterali dedicati alla fotografia stenopeica.



Cosa ritieni questa macchina abbia dato - più di una fotocamera tradizionale - alle tue possibilità espressive o alla tua poetica?

Come spesso ripeto ai miei studenti, il foro stenopeico mi ha insegnato tantissimo. Non solo mi ha aiutato a superare una fase difficile della mia vita, ma mi ha fatto soprattutto capire come accettare gli errori e soprattutto come trasformarli in un’attitudine positiva e creativa.
Nel mio lavoro vado alla ricerca di tracce e segni della memoria, piuttosto che di una fedele registrazione del reale. Non cerco di raccontare un luogo, un’emozione, una storia per immagini, preferisco interpretarlo seguendo un metodo intuitivo. L'uso di macchine fotografiche a foro stenopeico mi obbliga a riprese con lunghe esposizioni e mi permette di percepire la luce e il tempo che si depositano sull'emulsione sensibile. Per quanto riguarda l’arricchimento delle mie possibilità espressive, il foro mi ha permesso di avere un approccio più lento e meditativo nei confronti della fotografia. Senza dubbio i progetti che considero fondamentali nel mio lavoro - e sempre in progress - da quello sugli autoritratti a quello sui simboli e le icone, per citare i più importanti, hanno beneficiato del fatto che queste macchine hanno il potere di svelare dettagli, entità, percezioni invisibili nel momento in cui si fotografa, rendendo manifesto quel misterioso insieme di spiritualità e trascendenza che ci circonda.Questi strumenti low-tech mi hanno fatto esplorare livelli temporali ed emotivi prima sconosciuti, facendomi viaggiare attraverso le dimensioni multiple del tempo, delle emozioni, la tangibilità delle percezioni e l’ambiguità della visione.



To know more:
http://www.alessandracapodacqua.com

http://www.google.it/search?q=pinhole+photography&ie=utf-8&oe=utf-8&aq=t&rls=org.mozilla:it:official&client=firefox-a

3 commenti:

Beatrice Bruni ha detto...

Fondazione Studio Marangoni RULEZ!

Alessandro Bianchi ha detto...

Qua c' è veramente tanta roba!!!

Stelassa ha detto...

Ho letto questo post appena pubblicato e sebbene mi avesse colpito non l'ho commentato immediatamente; come sempre più spesso faccio quando mi trovo davanti a qualcosa che mi stimola, l'ho invece lasciato decantare tornandoci ogni tanto col pensiero, lontano da queste pagine. La prima nota: il titolo. "Photographer, artist". Mi piace che sia stata usata anche la seconda parola, così spesso abusata ma in questo caso affatto a sproposito.
Ci sono nel lavoro di A.C. diversi richiami a una mia ancora non maturata visione della fotografia: quello della proiezione di un inconscio che è in grado di sorprendere con la sua brutale (in senso positivo) sincerità: "Era come guardare quello che avevo pensato di fotografare arricchito di una serie di dettagli imprevedibili".
Altro punto importante: "il foro mi ha permesso di avere un approccio più lento e meditativo nei confronti della fotografia". Trovo che quest'affermazione dia uno spunto di grande valore in un'era di clic-clic frenetici, che sono spesso la rincorsa di una sorta di "falsa meta", così ancorata a standard tecnici ed estetici che sembrano aver sempre meno da dire e troppo da ciarlare. E dico queste cose nel bel mezzo del cammin della mia meditazione sulla fotografia e della quale un po' tu, Toni, conosci il percorso. Perciò grazie per questo inaspettatamente poco commentato post. Forse anche gli altri lettori sono lì a lasciar decantare come me... chissà.