Editor-at-large Matteo Oriani compares some types of self-portraits

C'è la grande moda dell'autoritratto.
Adesso poi, con gli apparecchi digitali, riempiamo Internet con le nostre facce, scegliendo il volto giusto per presentarci al mondo.
L'autoritratto ha radici profonde perché nasce dal bisogno di rappresentare la nostra identità attraverso una delle nostre tante maschere. E' una sorta di travestimento dedicato al nostro bisogno di vivere una “pluralità di vite” come diceva Freud.
L'autoritratto può anche essere un attestato psicologico di grande rilievo nella rappresentazione dell'"Immagine Interna" che si può raffigurare solo in parte con l'immagine esterna.
Vi propongo qualche esempio: Questo è un autoritratto di Pablo Picasso del 1896, quando aveva 15 anni


E' intitolato “Autoritratto con i capelli spettinati”.
In questo caso, si può parlare di un autoritratto realizzato per esplorare la molteplicità delle nostre “facce” o la nostra volontà di vivere una “pluralità di vite”.
Qui Picasso, nell'adolescenza, cerca una propria identità. Tutto vestito per bene, con la cura che ci aspetta da un ragazzo della sua età alla sua epoca, esprime il proprio estro creativo, forse ribelle, spettinandosi la zazzera.
Quest'altro, sempre di Picasso, è del 1972, dipinto un anno prima di morire, a 91 anni.


Adesso Picasso realizza un autoritratto che ha un simbolismo diverso rispetto al primo.
Va al di là o, se vogliamo, più nel profondo. Non rappresenta la sola faccia (esterna), ma anche una identità più profonda. Qui l'artista utilizza l'autoritratto non più per la volontà di vivere una “pluralità di vite”, ma come documento psicologico dove rappresentare la propria identità interna. In questo caso, la consapevolezza della fine della vita.
L'autoritratto ha il valore della testimonianza.
I ritratti, e di conseguenza gli autoritratti, si fanno per fissare un momento e rappresentare lo stato di quel momento. 
E' come creare un proprio “doppio” che sopravvive a quel momento e rimane a testimonianza.

Ho trovato una interessante analogia con due autoritratti di uno stupefacente fotografo, Robert Mapplethorpe. Ecco il primo del 1980, realizzato quando aveva 34 anni


E' di una bellezza disarmante. Ha una intensità che solo da una persona con una sensibilità artistica molto sviluppata può ottenere. Eccolo lì, bello come il sole, innocente, intenso, sensuale, consapevole e disponibile. Nel pieno della vita e della bellezza. Scandalosamente raffinato.
Ed ecco il secondo, datato 1988, un anno prima della sua morte per AIDS:


Come Picasso, Mapplethorpe si guarda allo specchio, rilancia il suo sguardo su se stesso, su di noi e sulla morte.
Ma la grande potenza del ritratto sta nel modo con cui impugna il bastone con il teschio. La mano afferra la morte mentre il volto sembra allontanarsi sfuocato con un'espressione quasi di sfida, di consapevolezza, appunto.
Sarebbe meglio vedere questa foto dal vivo.
Su internet, ho visto cose orripilanti. E' fondamentale riconoscere il corpo dell'artista nero su fondo nero per apprezzare la composizione. Spesso le riproduzioni su internet sono troppo contrastate facendo perdere la postura di Mapplethorpe.

Mi sono divertito a trovare analogie tra diversi fotografi famosi.
Ecco, per esempio, un autoritratto di Richard Avedon:


E uno di Annie Leibowitz:


Si dice, no?: un fotografo, mentre con un occhio guarda in macchina con l'altro guarda dentro se stesso.

Qui sotto, ancora Avedon:


Elliot Erwitt:


Irving Penn:


Henri Cartier-Bresson:


Tutti con il loro apparecchio fotografico ben in vista a raccontare il loro rapporto con la macchina. Tutti tranne Cartier-Bresson, notoriamente molto schivo, che diventa tutt'uno con la fotocamera sostituendo il suo volto con l'obbiettivo.

Molti hanno fotografato le proprie ombre proiettando la propria immagine fuori da se stessi in una ricerca del proprio “doppio”: Quando guardarsi in faccia non basta più a restituire una immagine nella quale ci si può riconoscere.

Ancora Cartier-Bresson:


Ansel Adams:


Andre Kertesz:


e, dulcis in fundo... Matteo Oriani:




Matteo Oriani è un fotografo. 
Colto ed acuto osservatore delle immagini e delle menti che le producono. 
Insieme a Raffaele Origone forma il duo professionale Oriani-Origone. 
Nelle loro foto danno vita ad oggetti altrimenti inanimati.

Click on the pictures to enlarge.

5 commenti:

Luigi ha detto...

Un altro bellissimo articolo, molto profondo e acuto.
I concetti che esprimi stuzzicano la riflessione e danno la giusta importanza a particolari delle immagini che descrivi, che prima magari sfuggivano.
Buona lettura, tempo ben speso!

Alessandro Bianchi ha detto...

Continuiamo ad andare alle mostre se vogliamo guardare foto.
Il web usiamolo per avere informazioni sulle mostre.
Matteo come al solito ti applaudo.

abele ha detto...

Piccola nota: la foto della Leibovitz non è un autoritratto, ma uno scatto di John Keatley
http://www.keatleyphoto.com/blog/2009/01/portrait-of-annie-leibovitz/
(sebbene il fotografo affermi che "It felt like the shoot ended up being a collaboration in making the pictures", il che si avvicina parecchio all'idea di autoritratto)

Lorenzo ha detto...

di autoritratti di autori “importanti” ce ne sono molti: ne approfitto di questo tuo post per un omaggio a Lee Friedlander e i suoi, di self-portraits. http://21rdh.blogspot.it/2012/03/lee-friedlander-self-portraits-inside.html

Matteo Oriani ha detto...

Per Luigi e Alessandro: grazie. Per me uno stimolo in più.
Per abele: grazie. "Piccola nota" costruttiva.
Per Lorenzo: grazie per il tuo contributo di arricchimento.