Haiti, January 1986



Port Au Prince, January 1986
Photographed by Toni Thorimbert

Sono stato ad Haiti due settimane, proprio tra il Dicembre 1985 e il Gennaio del 1986.
Scattavo per DIVA, un mensile di immagine diretto e ideato da Mario De Stefanis. Ho conosciuto Haiti come un’isola stregata, con una luce densa, maligna e notturna.
In quei giorni la tensione era palpabile. Il nostro furgone, con targa governativa, non era sempre il miglior lasciapassare.
Infatti, quei giorni di Gennaio sarebbero stati gli ultimi per il corrotto regime di Jean Claude Duvalier. Facemmo giusto in tempo a partire. Il mattino dopo il nostro ritorno a New York, una violenta e sanguinosa rivolta armata costrinse “Baby Doc” a scappare dall’isola.
Ricordo i miei giorni ad Haiti come una specie di incubo popolato di immagini funeste e scure. I nostri baldanzosi propositi di fotografare i riti voodoo vennero accantonati molto presto. Passai la mezzanotte di capodanno al buio, nel cesso della mia stanza d’albergo, a caricare gli chassis della mia macchina a lastre.
Haiti fa paura.
In aereoporto, il nostro parrucchiere, venezuelano, semplicemente scomparve per una settimana. Ricordo bene il tipo con il doppiopetto gessato, lungo bocchino e sigaretta, anelli d’oro e pistola nella cintura che lo spingeva dentro ad una porta da cui non usci più. Scoprimmo molto dopo che, dato un visto irregolare, era stato rimandato a New York senza che dalla dogana, dai consolati e dalle ambasciate, fosse possibile avere nessuna notizia ufficiale.
Nel nostro “civilizzato” albergo sulle colline di Port au Prince, il maitre d’Hotel era un “uomo di medicina” talmente potente che ti si gelava –letteralmente- il sangue solo a “sentirlo” comparire in sala.
Nonostante trovassi Haiti già terribile, scoprimmo che i nostri accompagnatori ce ne avevano mostrato una parte tutto sommato edulcorata e accettabile. L’ultimo giorno riuscimmo a sfuggire i nostri guardiani e, sull’auto di un europeo che viveva lì, andammo a vedere le “vere” bidonvilles. Non ho foto di quei luoghi, ma da allora ho un particolare rispetto per tutti quei fotografi che sono andati a documentare le guerre, le rivolte, le catastrofi e la durissima realtà di quest’isola tenebrosa e sfortunata.

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4 commenti:

Matteo Oriani ha detto...

Toni, sai che sei proprio bravo? Se ti stufi di fare il fotografo puoi sempre fare lo scrittore, il giornalista, lo sceneggiatore, il filosofo....mannò saresti sprecato: continua con la fotografia, và!
Un abbraccio.
Matteo.

settimio ha detto...

perchè fare il fotografo non è fare lo scrittore, giornalista, sceneggiatore e filosofo...?!?!
;)

clauderizzolo ha detto...

E in quell'inferno, a quanto vedo, tu ci hai fotografato un angelo...

Stelassa ha detto...

Nel gennaio '86 stavo per partire per lo Zimbabwe. Avevo sei anni appena compiuti e facevo la seconda elementare. Ci rimasi due anni, poi dovemmo praticamente scappare causa guerra civile. Gli occhi di un bambino non sono in grado di comprendere più di tanto la realtà, di provare una paura consapevole come quella che descrivi qui, per me si trattava di qualcosa di più grande di me che m'impediva di continuare a fare la stessa strada strada ogni mattina, d'incontrare a scuola i miei amichetti di colore, di giocare in giardino, di mangiare la "sadza", di andare nelle grotte, di vedere i leoni e le gazzelle, di guardare un tramonto nella savana con il senso di abitudine che può avere per un italiano bersi un cappuccino. Ma quella paura la vedevo negli occhi dei miei, la percepivo nei loro sguardi, la sentivo nelle loro parole... e l'ho capita tornando l'anno scorso in Sudafrica.