Editor-at-Large Matteo Oriani talks about the world’s most expensive photograph. Spoiler warning: It’s retouched!

Recentemente una fotografia di Andreas Gursky (Lipsia 15 gennaio 1955) è stata venduta ad un’asta di Christie’s per 4,3 milioni di dollari. E’ la foto più costosa al mondo. Andreas Gursky è cresciuto a Düsseldorf e ha avuto come insegnante Bernd Becher (Siegen, 20 agosto 1931 - Rostock, 22 giugno 2007) che, con sua moglie Hilla (Potsdam, 2 settembre 1934), è stato tra i più influenti artisti dei nostri tempi: le loro fotografie di archeologia industriale hanno fatto storia.
La fotografia si intitola “Rhein II” ed è stata scattata nel 1999.



Difficile capire certi meccanismi del mercato dell’arte, però mi diverte sapere che c’è chi spende 4,3 milioni di dollari per appendere al muro del salotto una foto grigia e verde di 360 centimetri per 185. Per di più la foto in questione non è unica: esistono 6 copie conservate al Museum of Modern Art a New York, alla Tate Modern a London, alla Pinakothek der Modern a Monaco, e alla Glenstone Collection a Potomac, Maryland. La sesta non so.
Il “tipo” ha fatto bene a comprarla: è bellissima. Temo però che giaccia in un caveau superprotetto e super climatizzato. La foto dico.
Ma quella foto è più “bella”, per esempio, di “99 cents”, sempre di Andreas Gursky e conservata al MoMa di New York, costata 3,3 milioni di dollari nel 2007?



Non so bene cosa determina il prezzo di un’opera, ma so che le fotografie di Gursky hanno un valore immenso che va al di là del vil denaro: il valore dell’arte.
Per capire questa fotografia slegata dal suo valore commerciale, proviamo a guardarla come se la stessimo guardando appesa al muro. Osserviamo la composizione. L’inquadratura è perfettamente divisa in due tra cielo e terra. Nella parte superiore c’è un cielo grigio, reso appena percepibile da morbide sfumature nuvolose. Nella parte inferiore c’è una spoglia distesa di verde interrotta da strisce grigie. La striscia più grande è il Reno.
Non si può dire se il fiume va di qua o di là. Si rimane ipnotizzati. Non ci sono punti di riferimento, ombre, oggetti, sembra non esistere tempo atmosferico e neppure tempo cronologico. C’è un appiattimento dei piani ma non una mancanza di profondità.
Le immagini di Andreas Gursky sono ottenute con fotografie manipolate. Si potrebbe dire postprodotte, ritoccate, fotoscioppate, ma il termine non sarebbe azzeccato. Lavorate digitalmente è più calzante.
La realtà, per Gursky, non può essere esibita se prima non viene ri-costruita perché la realtà oggettiva non esiste.
La tecnologia digitale è usata in questo caso in un modo estremamente nobile. L'artista usa questo mezzo per costruire una nuova realtà, per proporre un senso estetico e concettuale diverso, slegato e lontano da canoni estetici e concettuali imposti, dove nessuno, in realtà, si riconosce.
Sappiamo tutti quali danni si possono fare con il ritocco digitale. L’immagine che noi avremmo di quello stesso paesaggio, osservando con i nostri occhi, non coincide con la realtà che ci offre Gursky.
Guardare per credere: qui sotto la foto dello stesso posto scattata da un fotogiornalista tedesco.



Rhein II, come tutte le opere di Gursky non è una fotografia narrativa, ma è una fotografia allegorica. Rhein II trasmette una sensazione di serenità e di pace. E’ un’immagine meditativa-minimalista.
C’è un equilibrio rassicurante e una forte tensione attrattiva.
Equilibrio rafforzato da un rigore compositivo senza eguali dove sembra non succedere nulla e invece succede tutto.
Esiste un duplice punto di vista per godere di questa fotografia: da lontano si vedono grandi segni cromatici sapientemente disposti e da vicino puoi scoprire dettagli e particolari infiniti.
Posso solo immaginare (perché vedo in uno schermo) i singoli fili d’erba, le piccole increspature dell’acqua e le soffici sfumature delle nuvole. C’è dentro tutto il Reno, tutta la ”Realtà Reno” vista attraverso l’occhio di Gursky che, come dice lui stesso, immagina di guardare attraverso l’obbiettivo della macchina fotografica con l’occhio di un extraterrestre.
Il modo più puro, più aperto, più curioso, più inimmaginabile e profondo di guardare la realtà.
In quest’opera viene sublimato “l’effetto Gursky”: lo spettatore perde i punti di riferimento canonici per trovarne, meravigliosamente, di nuovi.
Adesso osservate le due foto vicine, “99 cents” e “RheinII”: non potrebbero apparire più diverse e invece sono generate dallo stesso “effetto” proprio perché sono immagini allegoriche e non narrative. “Rhein II” è la sublimazione di “99 cents”, per quello costa di più!

Matteo Oriani.

Nota dell’autore: grazie Principessa!

Matteo Oriani è un fotografo.
Colto ed acuto osservatore delle immagini e delle menti che le producono.
Insieme a Raffaele Origone forma il duo professionale Oriani-Origone.
Nelle loro foto danno vita ad oggetti altrimenti inanimati.

Click on pictures to enlarge.

11 commenti:

Angelo Trani ha detto...

Certo l'arte è un mercato, dunque ha le sue regole che possono essere condivise o meno. Penso tuttavia che la fotografia, a prescindere dalla sua collocazione sul mercato dell'arte, è comunicazione. Questa "fotografia" non ha un granchè da comunicare, mi pare, a meno di non dover spiegare tutto quel che c'è dietro. E come ben diceva Ansel Adams "La fotografia è come una barzelletta: se la devi spiegare non è venuta bene."
Che poi ci sia qualche personaggio pronto a spendere più di 4 milioni di dollari per possedere una qualsiasi cosa...nulla di nuovo, ma non è corretto forse parlare di arte, ma solo di mercato.

Stefano Reves S. ha detto...

Non mi stupisce sia tra gli artisti "più influenti dei nostri tempi". Negli anni in cui avremmo potuto discutere personalmente con Caravaggio, l'artista più acclamato era il celebre, ma che dico celeberrimo!, Federico Zuccari.

Cosa curiosa... questa foto mi ha ricordato una bella scena di un vecchio film."Così Parlò Bellavista". Un "allievo" di De Crescenzo si chiede come reagiranno i posteri davanti all'ipotetico ritrovamento del capolavoro firmato da un artista moderno" (nel particolare si pensa ad un altro gigante del quaquaraqquaquismo:Wesselman).Insieme concluderanno pensando d'aver trovato non un'opera d'arte, bensì "nù cess scassàt". Non accadranno cose dissimili con molti dei nostri superpagati contemporanei. La storia è abbastanza democratica in tutto ciò.E la cosa mi rincuora.
Ultimo appunto, applicando il sistema di valutazione logica più elementare: la proporzione, a che cifra dovrebbe essere venduta oggi una foto come "Dorima e gli Elefanti"?

mario ha detto...

Concordo su tutto!
Per la cronaca, Dovima with elephants ha realizzato circa 940mila euro l'anno scorso a Parigi
http://www.christies.com/LotFinder/lot_details.aspx?intObjectID=5379338

Luca Fiore ha detto...

Non so se “Rhein II” sia davvero la più bella foto di Gursky. Certamente è tra le sue immagini la più pittorica ed elegante. Trovarsi davanti alla maestà dei suoi 360x185cm è un'esperienza che non ci si scorda facilmente.
Vale davvero 4 milioni di dollari? Putroppo o per fortuna è un problema che non mi posso porre. A chi se l'è aggiudicata all'asta chiederei di regalarmi questa: http://noname.associazionetestori.it/wp-content/uploads/2010/12/gursky1.jpg

Simone ha detto...

Buongiorno a tutti.
Mi chiedo come sia possibile dire che davanti alla foto "Rhein II" si possa rimanere ipnotizzati. Ipnotizzati da che cosa? Anche se non mi piace e non mi emoziona (anzi, usando le parole dell'editore tedesco dei libri degli allievi della scuola di Düsseldorf, le loro opere sono unemotional, però vendono e quindi le pubblico) penso che almeno 99 cent abbia un significato molto forte. Inoltre ciò che accomuna gli allievi della scuola, o almeno ha caratterizzato un loro periodo produttivo, è la grande dimensione delle opere; questo però è un elemento ormai andato culturalemnte in disuso nell'arte, infatti la sua riproposizione deriva dal Bauhaus (1919 - Gropius progettava le aule altissime e con delle porte immense proprio per far passare le tele enormi che i professori facevano dipingere agli studenti), ma ogni tanto rispunta (soprattutto negli artisti tedeschi). Candida Höfer e altri hanno ormai abbandonato la maestosità nelle dimensioni. Altri, come Gursky, no.
Inoltre, secondo me (ma anche secondo alcuni critici non contemporanei), un'opera d'arte deve avere due significati: uno perfettamente capibile che fa apprezzare l'opera ed uno nascosto che può anche essere spiegato. Se mancano queste due caratteristiche non si può parlare di opera d'arte.
Faccio un piccolo esempio. Giudizio universale di Michelangelo. Si rimane a bocca aperta subito, ma si rimane ancora più IPNOTIZZATI dopo aver analizzato tutti i dettagli e i significati nascosti dell'opera.
Per concludere vorrei citare l'esempio di Huang Kehua, fotografo cinese che scatta delle foto spudoratamente copiate dagli esperimenti di Monti, Minor White ed altri (quindi non roba recentissima direi..), ma di cui ho visto anche un'opera con due cigni che formano il cuore con il collo, come il più pacchiano dei biglietti di san Valentino. Bene, le foto di questo personaggio, vengono valutate più di Giacomelli, Erwitt ed altri. Ma solo perchè il governo cinese lo sponsorizza e fa salire il prezzo.
Un pò lo stesso meccanismo che ha usato il governo americano (durante la guerra fredda) per far prevalere la pop art su l'arte russa e mondiale.

Saluti.

Unknown ha detto...

non ci potrebbe essere una lettura dell'opera più appropriata di questa, per definire l'arte di Gursky....

clauderizzolo ha detto...

Sicuramente é certa la distinzione tra arte e mercato dell'arte. Ma non dobbiamo cadere nell'errore di utilizzare i prezzi di mercato per definire se un'opera si possa o meno definire artistica. Soprattutto quando ci riferiamo a prezzo cosí elevati, che indubbiamente sono viziati da interessi commerciali e/o politici 8o di indubbia valenza storica). Insomma, non si puó definire un'opera piú o meno artistica di un'altra in base ai loro prezzi.
Cosí come credo che non si debba aumentare o diminuire l'artisticità di una produzione utilizzando epoche diverse come metro. Un'opera d'arte é indubbiamente legata all'epoca della sua realizzazione e dobbiamo tenerne conto nel momento in cui la valutiamo. Che una cosa ci piaccia o non piaccia poi, mi spiace dirlo, ma non vuol dire molto, soprattutto se parliamo di opere isolate. Bisogna prendere in considerazione un artista nella sua produzione, nel suo processo, nella sua evoluzione o involuzione, nella psicologia sua e degli spettatori ai quali tenta rivolgersi. Io, ad esempio, mi soffermo molto a lungo su opere "meno dirette" come é il caso della foto in questione, e le sue dimensioni mi soffocano un po'. Cosí come ho visto piú volte la Cappella Sistina (ho fatto un intero corso sulla sua conservazione e restauro) e non mi crea le stesse sensazioni, mi incuriosisce, ma non mi apre un dibattito interiore come altre opere contemporanee invece fanno.
Molto spesso l'arte é una domanda, non una risposta. Spesso la risposta c'é, ma é davvero nascosta bene e non tutti riusciamo a trovarla, vuoi perché ognuno ha la sua sensibilitá, vuoi perché magari non conosciamo a fondo l'opera di un artista e non siamo quindi guidati a percepirla. Non c'é nulla di male in questo, anzi.
Che poi questa foto valga i milioni che vale, beh, come giá detto, parliamo di mercato, che é campo di altri tipi di "sensibilitá".

clauderizzolo ha detto...

Aggiungo due libri interessanti sull'argomento
"Lo squalo da 12 milioni di dollari" di Donald Thompson
"The Photograph as Contemporary Art" di Charlotte Cotton

Matteo Oriani ha detto...

Vedo che l'opera di Gursky genera ammirazione ma anche fastidio. Non credo indifferenza.  Le fotografie di Gursky sono nelle collezioni dei più autorevoli musei del mondo. Nessuno di loro "spenderebbe" dei soldi con leggerezza. Ricordo che Rhein II fu venduta nel 1999 a 30.000 DM: l'equivalente, più o meno, di 15.300€. Un bell'investimento, vero? 
Qualcuno qui ha citato una delle più famose fotografie di Richard Avedon,  "Dovima with elephants", scattata nel 1955 per Harper's Bazaar. Il vestito indossato magistralmente da Dorima, era stato disegnato da un giovane Ives Saint Laurent, allora assistente di Dior.  Siccome nel commento c'è un piccolo refuso, ne approfitto per correggerlo per rispetto e ricordo di Dovima, non Dorima, nome d'arte di Doroty Virginia Margaret Juba, favolosa modella degli anni '50. Senza di lei le più significative fotografie di Avedon sarebbero state diverse o non ci sarebbero state affatto. Il nome Dovima, formato dalle prime due lettere dei tre nomi "anagrafici" di Doroty Virginia Margaret, era il nome dell'amica immaginaria che la modella si era creata da bambina per farsi compagnia durante i 7 anni trascorsi chiusa in casa a causa di una febbre reumatica. 
Grazie a tutti per il vostro tempo e a Claudio per le preziose segnalazioni.

carlo magni ha detto...

No dai non si discute,
Andreas Gursky è un mito, ha ucciso la fotografia così come è sempre stata pensata, e dopo di lui non è più stata la stessa.
Non voglio entrare nel merito delle logiche del mercato artistico,
che è accessibile solamente ad invasati miliardari da cui ci si può aspettare ogni capriccio!
Concordo con Claudio Rizzolo sulla contestualizzazione di un opera d'arte, che secondo me è molto più importante del "doppio significato" come illustrato da Simone.
Non capisco però come mai tutti abbiano la convinzione che una fotografia o un opera d'arte debba emozionare???
Ci sono tante cose nella vita per cui emozionarsi, ma perchè una fotografia che "non emoziona" deve essere peggiore di una "emozionante"?
Ovviamente si entra nella sfera dell'oggettività e della soggettività, ma stando in superficie, la questione non cambia.
Anni fa Gursky ha cambiato il concetto di paesaggio (e altri prima di lui: Sthephen Shore, Nicholas Nixon, Robert Adams, Thomas Struth ecc).
Allo stesso modo Thomas Ruff ha cambiato il concetto di ritratto. Ci "emozionano" i ritratti con effetti speciali alla Devid Hobby e Joe McNally? Che palle, sono tutti uguali! Anche i ritratti di Ruff sono tutti uguali, ....si ma siamo proprio sicuri?
Siamo nel 2012, buon anno a tutti.

Anonimo ha detto...

ma và a @@@@@@@...

le stesse le faccio meglio...


che tristezza